Storia dei quattro Vangeli

 

 

 

 

 

 

 

 

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In Name of Mary

 

 

Con il Papa

Solidità della Dottrina e della Tradizione

I testimoni delle origini

 


SI PUÒ TORNARE AL PASSATO!

 

Non è difficile spiegare che cosa siano i Vangeli.

Sono quattro racconti di un’unica straordinaria vicenda: quella di Gesù Cristo.

Immediatamente egli trasmette tanta benevolenza, sincerità, forza, consolazione, capacità di perdono, speranza di vita eterna.

Leggere i Vangeli, però, non sembra facile, a causa dei venti secoli trascorsi da quando sono stati scritti.

Eppure un grande saggio di Israele diceva: «Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qoelet 1,9). Parrebbe una sentenza sconsolante, in realtà Qoelet ci fa capire che le persone non cambiano molto da un luogo all’altro e nemmeno da un millennio all’altro; perciò possono comprendersi a grande distanza di luogo e di tempo.

Duemila anni non sono un ostacolo difficile da superare, perché la natura umana non è cambiata. Ma, a rendere più intricata la comprensione dei Vangeli, ci si mettono le circostanze in cui furono scritti e pubblicati. Di esse, apparentemente, ci sono giunte pochissime informazioni.

Ci renderemo conto che tutto ciò è stato provvidenziale e ci permette di scoprire tanti aspetti nuovi dei quattro racconti, tante indicazioni nuove per la vita di oggi. Basta correggere, qua e là, le traduzioni dei Vangeli, avvalendoci dei mezzi che possediamo, e poi utilizzare il cumulo sempre crescente di informazioni storiche e archeologiche per ambientare con precisione la vicenda di Gesù nei luoghi storici e nelle circostanze reali.

 


DURANTE LA VITA PUBBLICA DI GESÙ,

 

ANNI 28-30

 

Sulla riva del fiume

 

Quel pomeriggio di marzo dell’anno 29,[1] nel quindicesimo anno da quando a Roma era divenuto imperatore Tiberio, due giovanissimi pescatori, Andrea di Giona e Giovanni di Zebedeo,[2] stavano ad ascoltare Giovanni Battista. Era un uomo di trent’anni e da pochi mesi predicava un battesimo di conversione.

Accorrevano a lui persone da ogni parte della Palestina ed egli le invitava a pentirsi dei loro peccati, poi le battezzava, cioè le immergeva per un istante nell’acqua corrente, come segno di penitenza.

Si trovavano nella zona a nord del Mar Morto, tra la vegetazione lungo la riva sinistra del fiume Giordano. Questa regione si estendeva per tutta la parte a sud est di Israele e si chiamava Perea, in gran parte montuosa ma non vi mancavano campagne fertili.[3]

Israele comprendeva altre regioni importanti. La Giudea, a sud ovest, con la capitale Gerusalemme al centro. Dalla depressione del Mar Morto, a –394 metri, questa regione sale fin ai 600 metri sul livello del mare di Gerusalemme. Scende poi verso il Mar Mediterraneo. Era tutta coltivata.

La Samaria si trovava al centro del Paese, con pianure e monti coltivati o adibiti a pascolo.

La Galilea, a nord, a ovest del fiume Giordano, divisa in due parti dette Galilea inferiore (al nord) e superiore (a sud), molto fertile e con diverse città. Era una regione bellicosa perché costretta a difendersi spesso dai popoli confinanti. A est del Giordano c’erano diverse regioni più piccole.

Il Giordano attraversa, con un percorso sinuoso, quasi tutta la Palestina, da Settentrione a Mezzogiorno, entro una valle che scende presto al di sotto del livello del mare. A nord forma il Lago di Galilea, che era chiamato con diversi altri nomi: Lago di Tiberiade, Mare di Galilea, Lago di Genezaret… Poi il fiume scorre in una zona desertica e scende in Giudea, concludendo il suo percorso nel Mar Morto.

Il ragazzo di nome Andrea era di Betsaida, città a nord-est del Lago di Galilea, nella pianura ai piedi dell’altopiano chiamato Golan. Probabilmente anche Giovanni era della stessa città.

I due non immaginavano ancora che cosa sarebbe loro capitato. Non sapevano che proprio loro, qui «a Betània, al di là del Giordano», avrebbero dato inizio all’avvincente storia dei quattro Vangeli.

Anche noi, rileggendo questi libretti, incontriamo emozionanti sorprese.

Eppure, quanti secoli sono passati! Non ci sono altri libri che raccontano per filo e per segno l’insegnamento e le azioni con cui Gesù Cristo, circa duemila anni fa, ha dato origine alla religione cristiana, alla Chiesa e alla nostra civiltà. Ma scopriremo che la storia dei Vangeli s’intreccia direttamente con la vita del Maestro e Signore, cui danno testimonianza al pari di un “martirio”. Ciò può rendere più semplice seguire oggi Cristo.

I quattro Vangeli ci permettono immediatamente di vedere che in quegli anni Dio «ha fatto bene ogni cosa»[4] in Gesù. Veniva finalmente resa gloria piena al Padre, che ha creato buone tutte le cose. Nel mondo appariva la ricchezza della grazia e della verità di Dio, per indirizzare al bene ogni nostra capacità.

Sono fatti di duemila anni fa, ma sono avvenimenti che ci possono rinfrancare oggi, perché la loro memoria è solida.

A essi la Chiesa sempre si riferisce per rinnovare la propria Tradizione.

 

 

Maestri di Giovanni evangelista

 

Addentriamoci nella vicenda, con l’aiuto degli strumenti che sono disponibili oggi.

I due ragazzi erano cresciuti frequentando la scuola, come tutti i loro coetanei, e adesso erano discepoli del Battista, raccomandati a lui dai loro maestri precedenti. Leggendo il Vangelo di Giovanni, si intuisce che egli era d’intelligenza vivace ed era conosciuto a Gerusalemme. Aveva imparato bene a scrivere, ma in seguito non compì studi superiori, così che per i notabili di Gerusalemme rimase «senza istruzione e popolano».[5]

Dove frequentò la scuola Giovanni di Zebedeo?

In un luogo non lontano dalla sua città natale, Betsaida oppure Cafarnao, ma fuori mano rispetto a essa. Infatti all’inizio del Vangelo Giovanni troviamo le testimonianze che il ragazzo aveva scritto per far conoscere il Messia a un numeroso gruppo di persone, a lui care. Quella comunità non aveva potuto vedere nessuno dei segni compiuti da Gesù, perché non si trovava sulle strade che egli aveva già percorso e nemmeno nei luoghi abituali di Giovanni. Se l’evangelista si rivolgeva a queste persone con uno scritto, era perché esse potevano riunirsi tutte in una sinagoga. Facevano parte di una sola città, con una scuola retta da maestri molto istruiti, perché Giovanni dovette far certificare per loro le sue testimonianze.[6]

 

Giovanni Battista

 

Chi era Giovanni Battista?

Era di famiglia sacerdotale: suo padre, Zaccaria, era sacerdote e officiava al Tempio di Gerusalemme secondo il suo turno. Fin da «fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito e stava nei luoghi deserti fino al giorno della sua manifestazione a Israele».[7] Era chiaramente impossibile, per un fanciullo, abitare da solo in luoghi deserti. Si trattava, sì, di luoghi isolati, ma popolati da comunità particolarmente religiose, come quella degli esseni. Questi godevano di molta stima da parte del popolo e Giovanni, tra loro, cresceva e diventava sempre più autorevole, perché «la mano del Signore era con lui».[8] Era considerato un profeta mandato da Dio. Tra le altre comunità, probabilmente aveva frequentato anche quella in cui Giovanni di Zebedeo e Andrea si recavano a scuola: per questo li portò con sé come discepoli. Quella comunità era in rapporti stretti con il Tempio, come lo era stato il papà di Giovanni Battista.

I gruppi religiosi, o sette, a cui appartenevano le comunità dei “luoghi deserti”, attendevano un avvenimento straordinario, il regno del Messia “figlio di Davide”. Si legge, nei testi di Qumran,[9] che gli esseni, da alcuni decenni, erano convinti che il Messia (il Cristo) sarebbe sorto in mezzo a loro. Allo stesso modo era in attesa un’altra setta, quella degli zeloti, che aveva preso molto dagli esseni e voleva ricostituire il regno di Davide anche con l’uso delle armi. Tutto ciò doveva accadere presto, forse perché in quegli anni stavano compiendosi le settanta settimane di anni preannunciate dal profeta Daniele.

Quando una parola di Dio aveva inviato Giovanni a battezzare con acqua al Giordano, queste sette ritennero che fosse lui il Messia atteso. La notizia si sparse e il Battista, in pochi mesi, attirò a sé folle di persone.

 

Gesù, il Messia presentato legalmente al popolo

 

In realtà il Battista, provenendo da “luoghi deserti”, aveva dichiarato, di fronte a sacerdoti, leviti e inviati dei farisei, di essere soltanto la «voce che grida nel deserto» profetizzata da Isaia e di essere stato mandato «a battezzare con acqua perché “egli”», il Messia Figlio di Dio, colui che avrebbe battezzato in Spirito Santo, «fosse fatto conoscere a Israele».[10] E fu il primo a riconoscere che il Messia era Gesù, che in realtà era suo parente ma che non aveva mai incontrato.

In uno di quei giorni esclamò: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me![11] Gesù, il cui nome era comune tra gli Ebrei, era vissuto lavorando in famiglia per quasi trent’anni e non avrebbe potuto, di punto in bianco, presentarsi al popolo di Israele come maestro e profeta. Dunque volle essere battezzato da Giovanni, considerato un profeta, per iniziare con piena legittimità il suo ministero.

Lo disse egli stesso al Battista: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia».[12]

Facevano parte della giustizia che Gesù doveva adempiere anche i quaranta giorni durante i quali si ritirò «nel deserto».

Gesù, nel deserto, fu tentato dal diavolo. Non è facile stabilire come gli evangelisti abbiano potuto conoscere le parole dette dal diavolo e le risposte di Gesù. Il fatto è riportato in particolare da Luca, che dichiara di avere fatto ricerche precise e di aver scritto ordinatamente il suo Vangelo. Possiamo trovare la spiegazione proprio nel fatto che Giovanni Battista era vissuto in luoghi deserti. Le sette religiose che avevano comunità nel deserto si garantivano dai proseliti con molte prove.[13] Quei quaranta giorni dovevano essere una prova cui era sottoposto chi doveva assumere una particolare responsabilità. Dovevano trascorrere sotto lo sguardo di una persona autorevole, quale era il Battista, e questi non esitò a seguirlo. Così poté raccontare tutto ai suoi discepoli, tra i quali c’erano Andrea e Giovanni evangelista, che poi riferirono a Matteo. Questi poté informarsi personalmente.

Mentre infatti il Battista, con la sua autorità di uomo del “deserto”, compiva l’ultimo atto di giustizia e presentava Gesù al popolo, rese anche testimonianza a ciò che era avvenuto nei giorni precedenti. Aveva visto scendere su di lui lo Spirito Santo, ma poteva anche testimoniare che egli era il Figlio di Dio, perché, come ricordano Matteo e Luca, dopo averlo battezzato aveva udito una voce dal cielo che lo proclamava «Figlio». L’aveva capito anche nel deserto, quando il diavolo lo tentava dicendo: «Se tu sei Figlio di Dio...», e Gesù gli rispondeva con la Parola di Dio. E poi la sicurezza con cui Gesù respinse le tentazioni fece esclamare a Giovanni: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».[14]

 

L’incontro dei due ragazzi con il Cristo

 

L’indomani Giovanni Battista indica ai suoi due discepoli Gesù, ed essi subito lo seguono:

Giovanni, il Battezzatore, figlio di Zaccaria, era ancora là con due dei suoi discepoli e, fissato lo sguardo su Gesù che passa, dice:

— Ecco l’agnello di Dio!

I due discepoli l’hanno sentito parlare e hanno seguito Gesù.

Gesù allora si volta e, vedendo che lo seguono, dice loro:

— Che cercate?

Gli hanno risposto:

— Rabbì (che significa maestro), dove sei ospite?

Dice loro:

— Venite e vedrete.

Sono dunque andati e hanno visto dove viene ospitato e quel giorno sono rimasti ospiti presso di lui; era circa l’ora decima (le quattro del pomeriggio).[15]

Gesù in questo momento veniva ospitato dagli amici del Battista, in un luogo isolato.

I due ragazzi, incuriositi e affascinati, lo seguirono in quel luogo e annotarono l’ora dell’incontro.

Gesù iniziò in gennaio dell’anno 29 e questo incontro avvenne in marzo.

Iniziava così la più grande avventura che due persone potessero vivere.

Quali cose grandi ha fatto Dio in quegli anni per gli uomini!

Moltissime persone e tutti i popoli avevano sempre cercato di immaginare chi ha fatto il mondo, l’universo, gli uomini, così meravigliosi. Avevano cercato di comunicare con Lui, ma nessuno l’aveva mai visto. Che giorno era stato quello! Il Figlio del Creatore si manifestava, era lì in carne e ossa, e loro, due ragazzi, erano i primi a entrare in confidenza con lui.

Il popolo d’Israele aspettava da centinaia di anni un Messia, un re mandato da Dio per fondare un regno di giustizia, di verità e di pace. Ora il Messia era accanto a loro, e presto avrebbero scoperto che era molto meglio di ciò che si aspettavano gli ebrei.

Quale emozione, quale gioia!

Gesù è venuto nella carne, in avvenimenti precisi.

La carne è destinata alla risurrezione e nulla andrà perduto, nemmeno del nostro corpo. L’ha detto lui.

Gli innumerevoli risultati della scienza, l’attenzione che nel nostro tempo è rivolta alle cose che si vedono e non a quelle del Regno di Dio che non si vedono, sono il segno della volontà di Dio stesso che noi riscopriamo i fatti concreti, fisici, della vita di Gesù, per avere salvezza concreta.

Quell’incontro, così nuovo, si può ripetere anche per noi. Avviene nella Chiesa e nei Sacramenti, ma diventa più chiaro conoscendo bene Colui che incontriamo. Come lo possiamo conoscere più di quanto è già stato conosciuto? Proprio leggendo come racconto storico ciò che hanno scritto coloro che per primi lo incontrarono e furono assai contenti.

 

Giovanni di Zebedeo scrive subito ciò che vede

 

I due giovani passavano da un maestro all’altro e il primo incontro con quello nuovo si era rivelato sorprendente. Subito Giovanni cominciò a stendere, pieno d’entusiasmo, il diario della prima settimana straordinaria insieme a Gesù, che cambiò la sua vita, come avrebbe fatto ogni buon discepolo delle parole e opere del suo maestro: Gesù era ormai ufficialmente Maestro.

L’ispirazione dello Spirito Santo guidava la mano del ragazzo che scriveva.

Non si poteva più dimenticare quell’uomo fuori dal comune. Resta un fatto storico, sorprendente per noi oggi come lo era allora per i due discepoli.

Il discepolo voleva far conoscere ai suoi ex maestri e compagni la buona notizia di aver trovato il Messia, «che deve venire nel mondo».

Quell’uomo, Gesù, come ci dice Giovanni, sapeva quello che avevano in cuore le persone,[16] sapeva già quello che doveva accadere a lui stesso, dunque conosceva già anche noi che leggiamo oggi quei fatti. Sapeva come rispettare in tutto la nostra dignità, non ha voluto fare alcuna violenza alla nostra libertà, nemmeno con i libri che parlano di Lui. Egli, Figlio di Dio, ha fatto in modo che il suo Spirito ispirasse gli evangelisti a fare di tutto perché potesse arrivarci il racconto migliore delle sue opere e parole.

Giovanni aveva a disposizione il materiale per scrivere, perché era fresco di scuola e ancora era a scuola del Battista. Gli Ebrei avevano un culto particolare per lo scritto, per i libri, e Giovanni era un ebreo fedele istruito in una scuola di tipo ellenista. 

Giovanni scriveva le sue testimonianze con immediatezza, al presente, precisando nomi e luoghi, perché annotava le parole precise di Gesù e i particolari delle sue azioni, che altrimenti sarebbero stati dimenticati. Riferisce molti nomi di luoghi e di persone, eccetto quelli dei suoi maestri e della loro città.

Giovanni eseguiva il compito da discepolo: Gesù stesso lo invitò a incominciare a scrivere, perché non si può pensare che il Maestro non sapesse che Giovanni scriveva. In seguito l’evangelista scrisse anche una dichiarazione del maestro Giovanni Battista.

Scriveva mentre Gesù parlava e agiva, non aveva il tempo di stabilire i collegamenti del racconto. Chi poi gli trascrisse le testimonianze narrò al passato, come faceva ogni scrittore storico,[17] ma voleva sempre, prima, il lavoro di Giovanni.

Incominciamo a capire che i Vangeli sono racconti storici molto fedeli. Se non lo sono, succede una cosa curiosa: sembra che dobbiamo dare noi significato alle parole scritte, interpretando e meditando. E non si sa realmente che valore dare a ciò che è scritto.

Ma perché Giovanni non ha scritto niente del battesimo di Gesù, dei quaranta giorni nel deserto, ecc.? Proprio perché prima non stava seguendo il Battista: quindi scrive solo ciò che sente e vede. Almeno all’inizio non fa indagini né riflessioni.

 

I primi due discepoli di Gesù ritornarono in Galilea con il nuovo Maestro e intanto se ne aggiungevano altri tre; parlavano di lui…

 

Uno dei due che hanno udito quelle parole da Giovanni e l’hanno seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontra per primo suo fratello Simone, e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» e l’ha condotto da Gesù.

Gesù, fissando lo sguardo su di lui, ha detto:

— Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro).[18]

 

Poi Gesù chiamò Filippo di Betsaida e Filippo andò a chiamare Natanaele di Cana di Galilea.[19] Insieme arrivarono al paese di quest’ultimo, dove assistettero al primo miracolo, quando Gesù cambiò l’acqua in vino.

Dopo questo segno «…i discepoli credettero in lui»,[20] cioè diventarono veri discepoli, assumendo un legame giuridico con il Maestro.

 

Ebraico, aramaico, greco

 

Se abbiamo fatto attenzione ai due brani di Giovanni, abbiamo notato le parole “rabbì”, “Cefa” e “Messia”, con accanto una traduzione. Le parole sono state pronunciate da Gesù o dai suoi discepoli in aramaico e la traduzione originale è in greco.

Molti ebrei avevano atteso il “Messia”, un nome ebraico che significa “l’Unto”, “il Consacrato con olio”: parlavano aramaico e leggevano le Scritture in ebraico. Altri ebrei parlavano e leggevano in greco. In lingua greca “Messia” si traduceva “Cristo”.

Occorre ricordare che a Gerusalemme e in Giudea venivano parlate due lingue: l’aramaico[21] dai Giudei, il greco dagli Ebrei ellenisti. In Galilea e nelle altre regioni del nord, molti parlavano sia l’aramaico che il greco. Infatti, osservando i nomi che abbiamo conosciuto, scopriamo che Gesù, Giovanni, Natanaele e Simone sono nomi ebrei, mentre Andrea e Filippo sono greci. Ma Andrea, Simone, Filippo e probabilmente Giovanni, con nomi greci ed ebraici mescolati addirittura nella stessa famiglia, provenivano tutti dalla città di Betsaida.

In Palestina erano presenti i Romani dominatori,[22] che avevano ricevuto molto dalla cultura greca. La lingua ufficiale, per l’Impero romano, era il greco. Ma molto prima c’era stata la diffusione in tutto il bacino mediterraneo della lingua koinè, ossia di una lingua greca comune. La Palestina aveva conosciuto una dominazione ellenistica e al tempo di Erode il Grande aveva assunto un carattere internazionale.

Le due traduzioni, “rabbì-maestro” e “Messia-Cristo”, che troviamo proprio in questi primi capitoli del Vangelo di Giovanni, sono di nomi molto comuni tra gli Ebrei. L’altra, “Cefa-Pietro”, era di un nome conosciuto dai discepoli di Gesù e sconosciuta ad altri soltanto nei primi mesi. Sono state lasciate nel Vangelo perché si capisse facilmente che Giovanni aveva scritto subito in greco e subito aveva pensato a lettori fuori Palestina.

Giovanni, giovane studente, ha riferito alcune parole precise, pronunciate dalle persone in aramaico, ma si è preoccupato di spiegarne il significato greco. L’ha fatto perché era molto diligente e aveva acquisito questa abitudine a scuola. I fatti che stava scrivendo erano una novità assoluta e non era sicuro che le parole aramaiche fossero conosciute dai destinatari.

Scriveva in greco per persone che parlavano questa lingua. Era stato a scuola presso di loro e aveva imparato un greco caratteristico, con sintassi ebraica e anche con vocaboli di pescatori di Galilea,[23] tuttavia classico. Aveva appreso concetti esseni o zeloti.

Fu proprio Giovanni a fornire queste traduzioni, perché scrisse subito in greco.

Se avesse scritto tutto in aramaico, colui che tradusse in greco difficilmente avrebbe messo in evidenza queste parole tra le altre. “Rabbì” e “Messia”, erano assai comuni; anche Matteo e Marco, che si rivolgevano a lettori di Palestiana e di fuori, usarono questi due termini, ma non ritennero per nulla necessario tradurli in greco. “Cefa”, invece, era un nome dato da Gesù a Simone. All’inizio non era conosciuto fuori dalla cerchia dei discepoli, ma presto fu noto a molti; e non era poi tanto importante tradurlo.

Giovanni non pensava soltanto ai suoi ex condiscepoli, bambini e ragazzi, a cui l’insegnamento veniva impartito in greco, ma aveva grande attenzione, già all’inizio, verso persone ebree che vivevano fuori Palestina, nell’Asia minore, dove in seguito troviamo “le sette Chiese che sono in Asia”.[24] Il suo Vangelo contiene infatti accenni molto discreti che fanno pensare a suoi lettori o ascoltatori Greci.[25]

Alcuni di questi Greci vennero a Gerusalemme per la Pasqua dell’anno 33 e chiesero di vedere Gesù. Conoscevano già il Maestro e sapevano a chi rivolgersi, perché Giovanni aveva scritto per loro e i suoi “fratelli” avevano diffuso tra loro la buona notizia, almeno un anno prima. Attraverso le vie dei mercanti era facile raggiungere gli ebrei dell’Asia Minore e anche della Mesopotamia.

I fratelli greci si rivolsero dunque a Filippo, che parlava bene il greco essendo di Betsaida.[26] Non pensarono di rivolgersi a Giovanni, che pure parlava greco, perché era poco più che un ragazzo.

Gesù, dal canto suo, rispose ai Greci senza problemi, perché anche lui parlava il greco.

Infatti, durante il colloquio di con Nicodemo, il cui nome è greco, era nato un equivoco proprio sul termine greco “anothen” usato da Gesù, perché lo si poteva interpretare in modi diversi. Nicodemo aveva capito: “di nuovo”, e Gesù aveva corretto: “dall’alto”.

E quando Gesù disse ai Giudei che non l’avrebbero più visto,[27] essi pensarono che andasse ad ammaestrare i Greci. Era difficile avere quest’idea, se non l’avessero già udito parlare bene la lingua greca.

Ora, se le testimonianze di Giovanni sono state scritte subito in greco, anche gli altri Vangeli sono originali in greco. Infatti i testi greci possono essere tradotti sempre in modo più preciso e forniscono informazioni nuove legate tra loro in modo logico, mentre le traduzioni in latino sono in alcuni punti oscure e non permettono alcun approfondimento.

Così, per tutta questa ricerca, mi sono riferito al testo critico greco Nestle-Aland.[28] Gli autori hanno potuto ricostruire il testo preciso dei Vangeli in greco, attraverso confronti tra i numerosi codici antichi che ci sono giunti. Nessun testo antico ci è arrivato così ben conservato come i Vangeli, che risultano essere i libri più affidabili della storia.

Ricordiamo che i cristiani, dopo i primi tre secoli, svolsero ricerche in Palestina per ritrovare i luoghi di Gesù e ricostruire gli avvenimenti, confidando ormai nelle informazioni spesso incerte costruite sopra i testi evangelici di cui non si capiva bene quale fosse stata la lingua originale né come fossero nati. Si usava l’immaginazione, cercando perfino di adattarli. Poi servendosi delle informazioni raccolte, costruirono basiliche, ecc. Ma la ricostruzione critica dei testi greci permette ben altra conoscenza degli avvenimenti concreti, perché consente di ritornare semplicemente ai Vangeli e di far tesoro dell’aiuto fornito da altri documenti storici.

 

Testimonianze di Giovanni a una misteriosa città: nessuno credette

 

Gesù, insieme ai suoi discepoli, lasciò Cana e si fermò per alcuni giorni a Cafarnao.

Intanto l’evangelista Giovanni si recò nella città in cui aveva frequentato la scuola, per portare le sue prime testimonianze scritte, ma si rese conto che i suoi maestri e amici di quel luogo non le prendevano sul serio, considerandolo un ragazzino e ritenendo che il Messia fosse il Battista,[29] che era stato nelle loro comunità, in «luoghi deserti». Allora l’evangelista tenne con sé lo scritto e, appena tornò a Gerusalemme con Gesù per la Pasqua dell’anno 30, si rivolse a persone autorevoli, che gli dessero indicazioni utili a convincere i suoi “fratelli”. Nella città santa una «voce»,[30] simbolo di una persona in carne e ossa, lo consigliò di far certificare quello che scriveva, che cioè Gesù era il Messia, il Figlio di Dio.

Chi poteva essere colui che lo consigliò? Non occorre immaginare persone rimaste sconosciute, infatti c’era l’evangelista Luca che nel suo Vangelo mostra di conoscere bene Giovanni e ciò che avveniva nelle comunità da lui frequentate.

A partire da questo momento Luca e qualcun altro intervennero in momenti particolari a certificare quello che Giovanni scriveva.[31]

Intanto, mentre Gesù era a Gerusalemme, «molti credettero nel suo nome», cioè gli diedero credito giuridico, il Maestro invece non aveva bisogno di assicurarsi riguardo ai suoi discepoli, perché sapeva quello che c’era nelle persone. [32] Pochi giorni dopo, durante il colloquio con Nicodemo, Gesù disse: «Nessuno crede»[33]. Non avrebbe potuto rimproverare chi l’aveva appena conosciuto, l’aveva accolto, e nei cui confronti non aveva avuto bisogno di assicurarsi. Il rimprovero è rivolto a quei “fratelli” che avevano già letto le testimonianze scritte di Giovanni e non le avevano prese sul serio.

Anche Giovanni Battista, mentre battezzava ancora, ossia nell’anno 29-30, certificò con proprio sigillo[34] che Gesù veniva da Dio.

 

“Il discepolo che Gesù aveva caro”

 

Ciò che ho raccontato fin qui sembra fuori di ogni orientamento tradizionale. Eppure chiediamoci: perché alcune parti del Vangelo di Giovanni sono così immediate, e l’autore ha voluto mantenerle così spigliate, mentre altri passi sono di una saggezza tale da apparire sovrumana? Come è possibile che lo stesso autore abbia dato luogo a un tale contrasto? Ebbene, innanzitutto notiamo che il contrasto c’è tra i momenti in cui racconta il discepolo e quelli in cui parla Gesù.

Poi, se osserviamo più attentamente, scopriamo che lo stile del Vangelo è tutto giovanile.

Questo ci dice che, a parte qualche frase di collegamento, tutte le parti del Vangelo sono state scritte da Giovanni durante il ministero di Gesù.

Non dimentichiamo che Giovanni di Zebedeo era il «discepolo che Gesù aveva caro». La predilezione di Gesù per Giovanni doveva consistere in una maggior familiarità di insegnamento, che assecondava il linguaggio che questo discepolo comprendeva meglio per averlo assunto a scuola dai propri maestri, insieme a forti principi. Il divin Maestro ha rispettato tutte le capacità del suo discepolo.[35]

Gesù compiva “segni” e teneva le sue lezioni «di fronte ai suoi discepoli». Dobbiamo immaginare che Giovanni, discepolo curioso e interessato rivolgesse a Gesù molte domande, che nel Vangelo non appaiono e sono sottintese. Mentre Gesù faceva conoscere se stesso e il Padre che l’aveva mandato, la gioia e l’entusiasmo di Giovanni si alimentavano sempre più. Il giovane discepolo era molto attento e, nello scrivere, era d’accordo con il Maestro, riportava le parole precise di Gesù, pronunciate proprio in greco.

Dobbiamo concludere che i lunghi discorsi di Gesù, così meticolosi e apparentemente difficili, anzi impossibili per un essere soltanto umano, siano gli insegnamenti spesso dettati dal Maestro, in greco, nel modo più adatto a un adolescente. C’è di che sentire i brividi: possiamo leggere una per una le parole del divino Maestro. È la soluzione più onesta ed è l’unica possibile. In fin dei conti, se immaginiamo di sentirli pronunciare direttamente da Gesù Cristo, non sono difficili, sono espressione della sua divina saggezza, precisione e semplicità.

L’esattezza di Giovanni nel riferire i fatti e le parole di Gesù si nota in tutto il Vangelo, anche quando il discepolo non capiva bene. Sì, perché talvolta Gesù parlava anche in modo difficile per gli ascoltatori e i discepoli istruiti. Era riconosciuto ufficialmente come Maestro e meravigliava i suoi ascoltatori per la sua sapienza, che non si sarebbe raggiunta nemmeno con studi superiori. L’insegnamento degli altri rabbi non era come il suo. Mentre essi obbligavano i discepoli a riflessioni e studi complicati sulle Scritture, Gesù chiedeva soltanto di credere alle opere con cui testimoniava di essere stato mandato dal Padre, e con le quali portava a compimento le Scritture stesse.

Il discepolo aveva subito creduto. Esuberante e pieno di zelo[36] come i suoi “fratelli”, si diede da fare per persuaderli, scrivendo e facendo certificare. Se il racconto del Vangelo di Giovanni è alquanto frammentario, è però fatto di frammenti preziosi. Gesù riprende continuamente i suoi insegnamenti con gradualità, adeguandosi alla capacità di Giovanni di imparare. Frammenti, sì, ma che costituiscono un insegnamento completo, scritto appunto sotto la guida di Gesù.

Così nel Vangelo di Giovanni troviamo le cose più importanti che Gesù voleva fossero fissate nello scritto. Il Maestro usava il linguaggio della “setta” cui si rivolgeva Giovanni, perché quelle persone erano particolarmente preparate ad accogliere le parole del Messia.

Intanto tutto quello che il giovane discepolo Giovanni apprendeva da Gesù gli faceva acquistare sempre più quell’autorità di apostolo che farà di lui una delle «tre colonne» della Chiesa, insieme con Pietro e Giacomo «fratello del Signore».

 

Il semplice racconto storico

 

Alle notizie fornite dai Vangeli, solitamente, non si dà importanza storica.

Ma si tratta comunque di persone, luoghi, fatti che, se resistono alla verifica storica, hanno poi la dignità di tutti gli altri elementi reali, e come tali devono essere elaborati.

E Gesù Cristo non ha le caratteristiche di un fantasma…

Giovanni, come abbiamo intravisto, ci ha lasciato un racconto di fatti storici. Le sue testimonianze sono certificate da almeno due persone e questo è il modo migliore di certificare, anche oggi. Un documento scritto e certificato è certamente il miglior modo di trasmettere nei millenni la memoria di un avvenimento. Vedremo che anche il Vangelo di Luca è certificato.

Quali vantaggi otteniamo leggendo un Vangelo così?

Un primo vantaggio è che, senza mancare in alcun modo di rispetto al carattere sacro dei Vangeli, possiamo trattarli anche come documenti storici e apprezzarne il valore di fronte ad altri documenti antichi.

Almeno due dei Vangeli ci offrono una trasmissione storica sicura. Tutti e quattro ci trasmettono la memoria di qualcosa di assoluto, ossia di un riferimento sicuro per tutti e per sempre. Si tratta di una sicurezza che non è stata raggiunta dagli uomini con grande studio e impegno, ma che è apparsa con umiltà nella realtà quotidiana. In un momento preciso della storia e in un luogo preciso è nato da una donna un bambino che non aveva come padre un uomo, ma era Figlio di Dio. La sicurezza per tutto l’universo è una persona, non un’idea o una costruzione fissa. Siamo infinitamente più sicuri nelle sue mani, che con i piedi sulla roccia.

Perciò i fatti concreti narrati dai Vangeli sono da contemplare. La trasparenza da bambini che troviamo nei Vangeli, a cominciare da quello di Giovanni, ci consente di ripresentarci davanti agli occhi ciascuna situazione in cui Gesù ha insegnato e in cui ha confermato il suo insegnamento con le opere.

Un altro vantaggio ci è offerto dai Vangeli come documenti storici. Siccome un racconto certificato merita notevole fiducia, tutto ciò che i Vangeli dicono dev’essere considerato realtà; così ogni buon frutto che ottengo nel leggerli viene da fatti reali ed entra immediatamente a far parte della mia vita quotidiana. Se, invece, sbaglio nel comprendere qualcosa, l’esperienza di ogni giorno me lo fa capire abbastanza facilmente.

È semplice, così, conoscere Gesù Cristo, nostra sicurezza, ed è semplice incontrarlo realmente. Ne abbiamo bisogno. Non è facile impegnarci a vivere il Vangelo, se prima non conosciamo, anzi non incontriamo, il Protagonista, se non entriamo in amicizia con lui. Gesù ci incontra e ci coinvolge, come venti secoli fa, attraverso i fatti storici che leggiamo nei Vangeli. Egli stesso ha racchiuso gli avvenimenti nella Chiesa e nei Sacramenti. Ha dato alla Chiesa il potere di ripetere quello che lui ha fatto e questo potere è storicamente certificato nei Vangeli.

Gesù Cristo, con le parole e i fatti storici, con i Sacramenti celebrati nella Chiesa, arriva al fondo della nostra vita, la rende vita da figli di Dio, la riporta in pieno sole e ci fa acquisire meriti per la vita eterna. Le parole precise di Gesù ci permettono di conoscere sempre di più Dio e di parlare in modo vero con Lui. Le nostre giornate sono spese alla ricerca della gloria di Dio e acquistano senso in ogni momento. Cristo ci rende luce del mondo e sale della terra. Ci sentiamo sicuri con lui in ogni situazione, aldilà di tutto l’apparato che ci siamo costituiti per far funzionare il mondo. Oltre la stessa vita fisica.

Quando preghiamo Gesù Cristo, ci rivolgiamo a una reale persona umana e nello stesso tempo divina, che ci ascolta veramente e ci risponde davvero, attraverso le parole storiche e i segni storici che ha espresso venti secoli fa. Gesù non cambia le sue risposte, ma noi possiamo trovare molto adatto alle diverse situazioni della nostra vita ciò che egli ha detto e fatto nelle situazioni storiche in cui è passato. Un incontro più diretto con Gesù Cristo storico, non richiede più di andare a cercare tante altre parole, che pure sono buone, ma sono soltanto umane.

 

L’opera di Giovanni e il tesoro di Matteo

 

Ora, però, riflettiamo su un enigma che riguarda i quattro Vangeli.

La Chiesa, che conserva il tesoro dei Vangeli, li ha sempre tenuti in grande stima come storici, veri e senza errori. Ci garantisce che sono veramente adatti a trasmettere la memoria di quegli avvenimenti in modo efficace.

Tuttavia, se da una parte sembra proprio che gli evangelisti, consci dell’importanza dei fatti, abbiano scritto con grande onestà, senza parole inutili, d’altro canto ci accorgiamo presto che i tre Vangeli Sinottici cambiano l’ordine dei fatti tra loro e nessuno dei tre riporta le parole di Gesù in modo uguale agli altri.

Se partiamo dalla convinzione che il Vangelo di Matteo sia stato scritto per primo e che sia servito da modello agli altri due sinottici, rimaniamo subito perplessi, perché il suo racconto è sommario e ci presenta gli insegnamenti di Gesù riuniti in cinque discorsi e staccati dai fatti. Appena dopo, con il Vangelo di Marco, cominciano ad apparire strane differenze, che aumentano con Luca.

Non sembra proprio questo il modo giusto di raccontare i fatti, come se i tre Sinottici, invece di contribuire l’un con l’altro a trasmetterli fedelmente, fossero in disaccordo tra loro. Certamente, se ci sono tre Vangeli simili, ci deve essere un motivo ragionevole e dovremo scoprirlo. Ma il Vangelo di Giovanni, come se non bastasse il rompicapo degli altri tre, aggiunge il problema di una storia che pare completamente diversa, con Gesù che parla un linguaggio inconsueto.

Non si capisce dunque perché la Chiesa, fin dall’inizio, ci abbia indicato solo questi quattro libri come ispirati, con la massima tranquillità, ben conoscendo le loro divergenze.

Il bisogno di chiarezza mi ha spinto ad analizzare tutto il Vangelo di Luca e quello di Giovanni, in greco e, in realtà, ho notato che il Vangelo di Giovanni si può combinare esattamente con quello di Luca, in ordine di tempo, e che completa tutti e tre i Sinottici. Ma come è stato possibile a Giovanni fare ciò?

Se Giovanni ha scritto davvero fin dall’inizio dei fatti, come ha potuto Luca, che ha scritto più tardi e non era stato testimone oculare, raccontare in modo autentico soltanto fatti complementari, in ordine di tempo?

In effetti Luca mostra di avere ben presente Giovanni. Nei punti in cui i due evangelisti s’incontrano nel raccontare, sono anche pienamente in accordo, benché riferiscano particolari diversi, che si completano con notevole precisione.

Luca avrà certamente scritto dopo Giovanni, con il suo Vangelo davanti agli occhi, ma mi viene un dubbio: Luca non avrà copiato da qualcuno che era stato testimone oculare accanto a Giovanni?

Ripercorriamo le situazioni che possiamo dedurre dai Vangeli.

Poco dopo la Pasqua dell’anno 30 Giovanni Battista venne arrestato da Erode Antipa. Gesù, con i suoi discepoli, si trasferì a Cafarnao, cittadina sul lago di Galilea, dove venne ospitato in casa di Pietro[37].

Era primavera inoltrata e Matteo Levi, esattore delle tasse, che già conosceva Gesù perché la sua fama si era diffusa in Galilea, [38] ricevette probabilmente un incarico da Gerusalemme da parte di Luca, che aveva letto e certificato le testimonianze di Giovanni. Doveva stendere il verbale ufficiale[39] di quanto Gesù compiva. Egli era ormai riconosciuto pubblicamente come Maestro. Il resoconto di Matteo sarebbe diventato un grande tesoro.

Matteo, come ogni esattore delle tasse, era abituato ad annotare le cose che riguardavano il suo mestiere, perché il movimento di denaro, con tutto ciò che vi era connesso, era affidato allo scritto,[40] non alla memoria. L’esattore aveva alle sue dipendenze altri scribi, come lui esercitati anche a imparare a memoria i discorsi importanti.

Dobbiamo anticipare, senza spiegarlo per ora, che Luca copiò proprio da Matteo, in ordine, dopo aver tradotto in greco, e completò con altre testimonianze «acquisite con esattezza».

Ecco chi era colui che scriveva accanto a Giovanni, mentre i fatti accadevano: era Levi Matteo. Ognuno dei due evitò con cura di annotare ciò che scriveva l’altro.

L’unica eccezione evidente, prima degli avvenimenti conclusivi della vita di Gesù che non potevano essere trascurati da nessun evangelista, è la moltiplicazione dei pani e dei pesci presso Betsaida. Questo momento, come vedremo tra poco, riguardava direttamente il gruppo dei “fratelli” di Giovanni. Era stato decisivo per loro.

Matteo, dunque, cominciò ad annotare in aramaico e, quando Gesù citava le Scritture, in ebraico. Deve aver usato dei “quaterni”. In ambiente romano, per scrivere era usato anche questo strumento, il “quaternus” (quaderno), costituito da quattro tavolette di cera o da quattro fogli di pergamena o papiro, uniti insieme. Dopo aver riempito un certo numero di “quaterni”, si poteva unirli in un “codex”. Matteo lavorava per i Romani. Ciò che fa pensare ai “quaterni” è il brano di Matteo, da 14,22 a 15,39, che non fu trascritto da Luca e ha un’estensione che corrisponde verosimilmente al contenuto di un “quaternus”. Fu lasciato da parte per qualche motivo particolare.

Matteo scriveva nel modo più breve e concreto, senza parlare degli antefatti, senza collegare gli avvenimenti in modo organico e senza trarre conclusioni, come avrebbe certamente fatto se avesse scritto anche solo pochi anni dopo.

Gesù comandava di mettere in pratica le sue «parole»,[41] per questo ha voluto o permesso che fossero scritte. Ma soprattutto si è preoccupato che avessero la possibilità di capire ciò che avevano scritto, subito[42] o più tardi con l’aiuto dello Spirito Santo.[43] Intanto dovevano fissare le sue parole precise e costituirsi un «tesoro da scribi». A volte noi abbiamo l’impressione che le nostre parole siano inutili, non abbia senso parlare; ma quando incontriamo il Figlio di Dio che usa le nostre parole, allora ci rendiamo conto di quanto valgono le nostre semplici parole, e scopriamo che la parola è una delle cose più grandi che possediamo, il segno della nostra somiglianza con Dio, il segno che ci permette di arrivare a esprimere il fondamento della nostra vita. Ecco perché è importante che oggi noi eseguiamo traduzioni fedeli dei testi evangelici.

Sia Matteo che Giovanni hanno raccontato con la loro mentalità ebraica, che non ci è sconosciuta, guidata da Gesù, così che possiamo affidarci al loro racconto, e quindi alle parole e opere dirette di Gesù, che gli evangelisti hanno lasciato ambientate semplicemente nei fatti storici reali.

È questo ambiente che il Figlio di Dio ha scelto per rivelare il Padre e il suo Regno; e i Vangeli aiutano a capire questo ambiente, la mentalità di chi li ha scritti, il modo in cui sono stati scritti, e stimolano a capirlo sempre di più, alimentando il desiderio di comprendere com’era Gesù vivo allora, per vivere con lui oggi.

In effetti i due Vangeli, che riportano testimonianze dirette, ci permettono di estrarre dal semplice racconto la posizione sociale e giuridica di qualsiasi persona, in ogni passo, con grande coerenza. Nella gran varietà di situazioni, gli autori non cercano di ricordare e ricostruire per fornire una descrizione credibile, perché hanno scritto subito.

I Vangeli rimangono inesauribili nel fornirci concretezza storica. Questa noi dobbiamo cercare nei Vangeli, perché ci raccontano come Dio si è rivelato nella carne umana: un avvenimento desiderato dall’umanità, che però non avrebbe mai osato sperare tanto.

Un avvenimento che è il centro di tutta la storia umana, un baluardo che non teme né scienza, né seduzioni, né potere, né morte.

Un baluardo di salvezza, come dice la Seconda lettera a Timoteo: «…del nostro Salvatore Cristo Gesù, che ha reso inoffensiva la morte e ha messo in luce vita e immortalità per mezzo del Vangelo».[44]

L’universo è in mano a una persona, Cristo Gesù, che poteva richiamare con semplicità gli uomini dalla morte. Egli ha voluto bene a ciascuno di noi, al punto di dare la sua vita per noi. È tornato anche lui dalla morte ed è vivo per sempre, con «ogni potere in cielo e sulla terra».[45] La nostra vita è nelle mani di questa persona e nemmeno un capello va perduto.

È difficile non dare importanza a questa salvezza: donata realmente da Dio e non fabbricata dagli uomini; salvezza che permette di aver cura degli altri e di non pensare soltanto a difendere la propria vita dal male e dal fantasma della morte. Così troviamo nei Vangeli istruzioni per voler bene a tutti e non fare male a nessuno.

La fede cattolica è nata da quei fatti storici, cioè dall’insegnamento e dalle opere di Gesù Cristo, Figlio di Dio in carne e ossa. È fondata su quei fatti.

È fondamentale ricordarlo. Se credessimo soltanto a miracoli che possono esserci donati oggi, la nostra fede sarebbe molto pietistica e fantasiosa,  senza un Rivelazione reale, senza l’esempio e l’insegnamento di vita di Gesù. Anche se la fede non si esercita nel credere alla veridicità storica dei Vangeli, ma nell’affidarci a Gesù, persona storica, che ora regna glorioso alla destra del Padre.

Alcuni miracoli avvengono anche oggi. Ma dove troviamo oggi una intera vita giusta, autenticata da miracoli, di un uomo morto in modo anche peggiore di altri, ma risorto e glorificato da Dio?

È difficile che Dio compia oggi miracoli grandiosi per confermare la fede dei cristiani: sarebbe come dire che quello che ha fatto Gesù Cristo 2000 anni fa non era in grado di durare nei millenni. Dobbiamo invece lavorare a una “riscoperta” di quello che ha compiuto Gesù.

Di fronte al fervore tecnico-scientifico di oggi, i cristiani devono avere fervore e umiltà nel riscoprire le proprie origini, perché le testimonianze e la fede dicono che Gesù «ha fatto bene ogni cosa» allora, e questo basta perché anche oggi risalti la sua «salvezza potente». Se infatti i Vangeli raccontano fedelmente gli avvenimenti storici, allora le realtà in cui crediamo sono testimoniate in modo universalmente valido e una testimonianza così è altrettanto e più concreta di un esperimento scientifico.

 

ANNI 31-32

 

La città nel deserto

 

Passarono due anni e il Battista venne fatto decapitare da Erode. Nel frattempo Giovanni aveva portato nuove testimonianze, certificate con sigillo, ai “fratelli” presso i quali aveva frequentato la scuola e questi avevano incominciato a domandarsi se Gesù fosse in realtà il Messia.[46]

Chi erano i “fratelli” per cui Giovanni scriveva? Il discepolo era molto giovane, aveva atteggiamenti da adolescente.[47] Ancora alcuni anni dopo, nel periodo narrato dagli Atti degli Apostoli, lo troviamo accompagnato da Pietro. Certamente non aveva preso l’iniziativa di scrivere soltanto per se stesso. Lo si nota nel suo Vangelo, dove egli era preoccupato per molte persone che, all’inizio, non credevano ai fatti. In seguito credettero, perché le testimonianze di Giovanni venivano certificate da persone autorevoli. Perciò Giovanni si rivolgeva a una comunità che esisteva già quando Gesù iniziò la sua vita pubblica.

Quando finalmente Giovanni poté riconoscere che i suoi “fratelli” avevano cominciato a credere, ecco che i Giudei continuavano a non credere. Anzi cominciarono a perseguitare Gesù perché guariva il sabato.[48] Dal capitolo 6 fino alla fine del suo Vangelo si nota questa contrapposizione. Giovanni parla di “Giudei” per indicare proprio gli abitanti della Giudea, oppure coloro che erano fedeli al Tempio di Gerusalemme, alla Legge di Mosè. Parla anche di Galilei, per indicare gli abitanti della Galilea, alquanto indipendenti dai Giudei.

Dunque Giovanni non si rivolgeva a persone di Giudea, ma di un’altra regione.

Scriveva le sue testimonianze perché i “fratelli” non avevano ancora visto i fatti.

Perciò questi non abitavano nei villaggi, circondati da campi coltivati, e nelle città in cui Gesù era già passato, aveva incontrato la gente e aveva insegnato. Oltre che in Giudea e in particolare a Gerusalemme, Gesù era stato in Perea e in Samaria. Ma soprattutto aveva percorso la Galilea a ovest del Lago di Tiberiade.

Eppure quei “fratelli” dovevano costituire una comunità, in una città abbastanza vicina alle regioni percorse da Gesù, perché Giovanni, benché fosse un adolescente, poteva comunicare abbastanza facilmente con loro e poteva sapere che all’inizio nessuno di loro credeva.

Fuori Giudea e dagli altri luoghi in cui era passato Gesù, dove poteva trovarsi quella città?

Era già avvenuto che Gesù cercasse di raggiungere quella città, nei primi giorni del suo ministero. Leggiamo attentamente Luca 4,42-44:

Divenuto giorno uscì e si incamminò verso un luogo deserto. Le folle lo cercavano, lo raggiunsero e gli impedivano di andarsene via da loro. Ma egli disse loro: «È necessario che io dia la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città, perché sono stato mandato per questo». Andava predicando fino alle sinagoghe della Giudea.

Gesù era partito da Cafarnao al mattino, perché doveva percorrere un bel po’ di strada, voleva raggiungere quel «luogo deserto» abbastanza lontano, in cui però c’era una «città. Questa «città» doveva essergli particolarmente cara.

Tuttavia egli si lasciò convincere a non andare in quel luogo e indirizzò il suo ministero in verso la Giudea. In questo modo Luca allontana dalla misteriosa città l’attenzione dei lettori: c’era qualche motivo per tenere segreto ogni contatto con quella città. I Vangeli evitano accuratamente di nominarla.

Dove si trovava il luogo deserto?

La Galilea non aveva luoghi deserti ma, come dice F. Giuseppe[49], «è tutta coltivata e non v’è angolo che non sia lavorato, anzi vi sono anche molte città e un gran numero di villaggi densamente popolati».

Cercando qua e là nei Vangeli, ecco emergere una indicazione precisa.

In nessun’altra occasione, dopo questo episodio, la folla aveva più inseguito Gesù per impedirgli di recarsi in qualche luogo, ma quando prese con sé i suoi discepoli per andare in un luogo deserto al di là del Mare di Galilea, cioè di Tiberiade, presso Betsaida,[50] la gente “capì”, lo seguì a piedi e lo precedette sull’altra riva.

 

Iniziative a Gamla

 

Giovanni riferisce sempre i nomi dei luoghi in cui Gesù compie dei segni. Ma, in questa occasione importante, si limita a dire che «Gesù andò al di là del Mare di Galilea...». Perché mai tutto questo mistero su un “luogo deserto”? Perché la gente lo inseguì in queste due occasioni?

Era vicina la Pasqua dell’anno 32.

Questa seconda volta, comunque, Gesù arrivò in barca nel luogo in cui aveva deciso di andare, a nord est del Lago (o Mare) di Tiberiade, un po’ oltre Betsaida. Accolse la folla e con essa s’inoltrò per il pendio erboso del monte che sale da poco distante la riva. C’erano 5000 uomini, insieme a molte donne e bambini, [51] e verso il tramonto li sfamò moltiplicando miracolosamente cinque pani e due pesci. «Sapeva bene quello che stava per fare».[52]

Benché i Vangeli non lo dicano espressamente, quel giorno fu memorabile per molti, infatti è raccontato da tutti e quattro gli evangelisti, ed è uno dei momenti più importanti per la storia dei Vangeli.

Quella stessa sera «gli uomini» (il Vangelo non specifica di più), «considerando il segno che egli aveva compiuto, dicevano: “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo”». Per questo, «stavano per venire a rapirlo per farlo re».

«Ma Gesù», avendolo saputo, «si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo».[53]

Chi voleva venire a “rapirlo”?

«Gli uomini» non erano tra la folla. Giovanni afferma che erano presenti cinquemila uomini, eppure quelli che volevano rapirlo «stavano per venire», perché abitavano un po’ lontano.

Non troppo lontano però. Infatti, benché Gesù avesse mostrato con molti altri miracoli di essere il Messia, pensarono di rapirlo soltanto quel giorno, né prima né dopo, e solo in quel luogo. Ciò significa che solo in quel momento egli era abbastanza vicino alle loro abitazioni perché essi, in una sola serata, potessero vedere il «segno», credere, decidere il rapimento ed eseguirlo. Questi uomini non abitavano dunque a ovest del monte, verso Cafarnao, altrimenti Gesù sarebbe stato vicino a loro anche prima. Invece non avevano mai pensato di rapirlo, proprio perché al loro territorio non si era mai avvicinato prima. Potevano abitare soltanto più a est, dove non era mai arrivata nemmeno la folla che inseguiva il Maestro.

 La folla, dal canto suo, avvisò Gesù, anche se già lo sapeva, che lo volevano rapire; ed egli poté nascondersi sul monte, dopo aver congedato tutti. Più tardi, camminando sull’acqua, raggiunse i discepoli che attraversavano il Lago in barca.

Il giorno seguente la gente tornò a cercarlo sul luogo del miracolo. Tutti erano convinti che la sera non fosse partito, poiché sapevano che si era nascosto sul monte. Quando poi lo ritrovarono a Cafarnao, non c’era più nessuno che pensasse a rapirlo, pur avendolo a portata di mano.

Il giorno prima quegli «uomini» volevano rapirlo proprio dalle mani della folla. Non erano di quelli che lo seguivano. Non avevano visto i fatti e non avevano creduto alle prime testimonianze scritte dell’evangelista Giovanni. Erano stati toccati da quelle certificate, ma furono convinti soltanto vedendo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Essendosi resi conto che le testimonianze di Giovanni erano vere in tutto, che cioè Gesù era veramente il Profeta atteso, volevano dare a lui il posto che meritava: volevano farlo re a Gerusalemme.

Non si trattava di persone alle dipendenze di qualche potente, perché questi non avrebbe proposto un nuovo re ai romani, anzi sarebbe stato geloso del proprio potere. Però si trattava di uomini con la possibilità di assicurare a Gesù Cristo quanto occorreva per esercitare il suo potere regale. Per pensare a rapirlo e per farlo re, dovevano avere una certa potenza militare, essere ben difesi dalle ingerenze dei Romani che dominavano il territorio.

L’unica possibilità è che provenissero da un villaggio o da una città-fortezza, in posizione isolata su un monte poco distante. In effetti qualche chilometro più a est c’era una città, le cui rovine sono state identificate pochi anni fa dagli archeologi ebrei.

La città era costruita su una collina rocciosa che si erge dal fianco occidentale del Golan,[54] in mezzo a un deserto erboso. Distava circa 20 Km da Cafarnao e si trovava a 8 Km circa a nord est del Lago di Galilea. Oggi la collina è ricoperta soltanto di rovine, ma al tempo di Gesù la città era ben viva ed era una fortezza naturale che politicamente faceva a sé, densamente abitata. Dominava tutte le alture all’intorno, che dall’altopiano del Golan discendono verso il Lago di Galilea. Gli archeologi del Golan la identificano con Gamla, nominata da F. Giuseppe in Guerra Giudaica, IV. Era «la città più forte di quella regione».[55] È stato, questo, uno scavo archeologico provvidenziale per poter ricostruire interamente la storia dei Vangeli.

Non c’era altra città che avesse tutte le caratteristiche richieste per permettersi di portar via Gesù alla gente. Ecco perché le folle di Galilea inseguivano Gesù ogni volta che si dirigeva verso questo luogo deserto a Ovest di Betsaida: non volevano che ci andasse da solo, a causa di Gamla. Temevano che «andasse via da loro», che quegli «uomini» potessero accaparrarsi il Messia e impedirgli di essere disponibile per tutti. Non sopportavano nemmeno l’idea.

La città di Gamla era là, sul monte, da cui si vede bene la riva del Lago. Gesù non avrebbe potuto in alcun modo andare in quel territorio, con tutta quelle folla, e compiere un miracolo senza provocare una reazione degli uomini della città-fortezza. E la reazione venne. Così Gesù fece vedere a quelli di Gamla un segno che li toccava particolarmente. E sembra che sia andato in quel luogo proprio per cercare loro, essendo morto Giovanni Battista, che essi pensavano fosse il Messia. La «città sul monte non può restare nascosta».[56] Se avevano sbagliato nel credere che il Battista fosse il Messia, Gesù non li lasciò delusi: il Messia era proprio venuto.[57]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Gamla e Gerusalemme

 

Ora, «gli uomini» non pensavano tanto al pane che Gesù poteva procurare, pensavano a proclamare re il Messia e a ricostituire il regno di Davide secondo il progetto degli zeloti. Se egli si fosse lasciato fare re, essi l’avrebbero difeso e servito. La loro città doveva essere protagonista nel servirlo. Quando Gesù venne consegnato a Pilato, circa un anno dopo, il Vangelo di Giovanni allude all’esistenza di «guardie del corpo» che potevano impedire «che Gesù fosse consegnato ai Giudei».[58] Le «guardie» pronte per Gesù non provenivano dai Giudei, eppure avevano accesso a Gerusalemme e al Tempio, erano presumibilmente uomini armati di Gamla.

Dagli scavi archeologici eseguiti tra le sue rovine Gamla offre l’idea di una città di coltivatori di olivi, che commerciavano[59] soprattutto con Tiro. Ma le monete trovate negli scavi, molte di Tiro e molte altre romane, portano la scritta in greco. Ciò significa che il commercio di Gamla poteva arrivare anche in Asia minore. Gli abitanti della città erano di popolazione mista, giudei e siri, e quindi parlavano ebraico, aramaico e greco.[60] Ad esempio, nel racconto di Flavio Giuseppe sono ricordati, come capi della città, Carete e Giuseppe.[61] «Carete» è un illustre nome greco, appartenuto a colui che fuse il colosso di Rodi, a un duce ateniese e a uno storico di Mitilene.

Negli scavi sono stati trovati dei frantoi per le olive, accanto a bagni di purificazione, perché gli abitanti di Gamla dovevano produrre olio “ritualmente puro” da vendere al Tempio di Gerusalemme per i sacrifici.

Gerusalemme, splendida città, s’innalzava su quattro colline e le valli tra l’una e l’altra erano state appianate nei secoli. Era circondata da un muro per tutto il perimetro, che era di circa 6 chilometri, mentre a nord i muri erano tre, per difenderla meglio dove l’accesso era pianeggiante. L’altezza delle mura era di circa 12 metri. Nei muri erano inserite decine di torri e il tutto era fatto di blocchi massicci e ben squadrati di pietra. Vi erano poi tre torri più imponenti fatte costruire da Erode il Grande e, nel perimetro del Tempio, la Torre Antonia sede della guarnigione romana.

Era la città santa d’Israele, la città del Tempio del Signore. Il Tempio si trovava a nord est della città; era costruito su un’altura, anticamente stretta, che era stata ampliata nei secoli apportandovi terra e costruendo bastioni. Visto da lontano, sembrava un monte coperto di neve, luccicante al sole, perché era tutto di marmo bianco, rivestito in molte parti d’oro e argento. Intorno aveva un portico lungo circa 1100 metri, che includeva anche la torre Antonia. Attraverso 14 scalini, poi, i soli Ebrei potevano salire al luogo santo, uno spiazzo circondato da un muro alto 12 metri circa. Il muro aveva dieci porte, di cui nove coperte d’oro e d’argento, l’altra, davanti al santuario, era di bronzo di Corinto, più preziosa. Appoggiato a questo muro, tra le porte, c’era un secondo portico. Nel mezzo del luogo santo c’era il santuario, al quale si accedeva tramite dodici gradini. Questo era l’edificio principale, con la facciata di metri 45 x 45 circa, mentre dietro era largo circa 30 metri e lungo altrettanto. Era suddiviso in tre parti. Si entrava da una porta senza battenti nel vestibolo. Attraverso una porta con battenti d’oro, davanti alla quale pendeva una tenda babilonese, si entrava nel santuario. Una tenda chiudeva l’ultima parte, il santo dei santi, una stanza completamente vuota nella quale nessuno poteva entrare, eccetto il sommo sacerdote, una volta l’anno, nella festa della purificazione, il Kippur.

Ma Gerusalemme era anche una grande città movimentata. Gli abitanti erano all’incirca centocinquantamila, ma durante le feste di pellegrinaggio (Pasqua, Pentecoste, Capanne) potevano raggiungere il milione. Era ricca dei frutti della campagna circostante. Vi si concludevano affari internazionali. I sadducei, classe sacerdotale potente, non esitavano a scendere a compromessi con i Romani per ottenere vantaggi. Così la grande città capitale agli occhi di farisei, esseni e zeloti, era diventata come “Babilonia”, quella che aveva deportato e tentato all’idolatria il popolo ebreo.

Gamla era fedele alla “città santa Gerusalemme”, cioè al Tempio, ma ostile ai Romani e a coloro che avevano il potere nella capitale con il loro appoggio.

Da Gamla venne Giuda figlio di Ezechia, fondatore della setta religiosa e politica degli “zeloti”. La setta aveva accolto molte caratteristiche degli esseni.  Anche numerosi abitanti di Gamla erano zeloti.[62]

Ecco perché nei Vangeli e negli altri libri dei Nuovo Testamento Gamla non viene mai nominata: in una nazione dominata dai Romani, qui erano nati gli zeloti che, per essere fedeli alla Legge di Mosè, non accettavano il dominio straniero.

Ora, Gesù non poteva permettere di essere fatto re dagli uomini in tale situazione, non poteva mettersi dalla parte di qualcuno e rischiare che il suo Regno fosse limitato a alla setta degli zeloti e a una parte di Israele dispersa tra i Greci.[63]

Quelli di Gamla avrebbero avuto ancora diverse occasioni per rapire Gesù nei giorni seguenti, quando Gesù incominciò a percorrere rapidamente vari luoghi della Galilea, passando e ripassando dalla zona della moltiplicazione dei pani. Ma, dopo il primo tentativo non riuscito, si convinsero che il Messia doveva essere lasciato stare e non tentarono più.

 

Le testimonianze di Giovanni trascritte su rotolo

 

Abbiamo potuto scoprire che il Vangelo di Giovanni ha avuto inizio quando l’evangelista incontrò Gesù, perché egli volle testimoniare il suo incontro alle persone che avrebbero dovuto accoglierlo con più gioia.

Chi però ha scritto il libro con tanta maestria, da vero scrittore, se Giovanni era un ragazzo durante gli avvenimenti? È stato senz’altro uno più adulto, non Giovanni in prima persona; lo si legge chiaramente nella conclusione del libro. Cerchiamo di capire come questo adulto ha composto il Vangelo, che altrimenti appare in gran parte incomprensibile.

Tutto ruota intorno alla città di Gamla, come fosse semplice per chi leggeva capire tutto, pur dicendo poco. L’autore del Vangelo poteva rivelare che quegli «uomini» volevano rapire Gesù Cristo, perché li conosceva bene: erano suoi “fratelli”, membri di quella comunità cui si rivolgeva e alla quale apparteneva egli stesso. Perciò poteva permettersi di dire poco.

Gli scavi archeologici hanno mostrato che Gamla possedeva una splendida sinagoga, edificio che gli ebrei usavano anche per la scuola, con una stanza da studio. La città, dunque, era abitata da ebrei. Doveva essere proprio questa la città in cui Giovanni di Zebedeo aveva frequentato la scuola. Alla “comunità” di questa città di Giovanni si rivolgeva scrivendo le sue testimonianze. Così la città arroccata sul monte[64] era entrata nella storia dei Vangeli già all’inizio.

E la città entrava adesso da protagonista nella storia cristiana, pur rimanendo sempre anonima. Dal suo punto di vista si ritrova inaspettatamente l’unità di tutti i libri del Nuovo Testamento.

Gesù Cristo nascondendosi sul monte quella notte, dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci, fece in modo che a Gamla riflettessero più profondamente. Il giorno successivo qualcuno di loro lo seguì a Cafarnao. Con il discorso e con i miracoli, Gesù rivelò come i discepoli potessero «avere vita nel suo nome» e promise il «pane vivo disceso dal cielo». Così la fede dei “fratelli” di Gamla crebbe, al contrario di quella dei discepoli che seguivano sempre Gesù, molti dei quali lo abbandonarono.

Al capitolo 10 dell’Apocalisse, che è un libro simbolico ma anch’esso storico, leggiamo:

E vidi un altro angelo potente […] con un piccolo volume aperto nella mano. E pose il suo piede destro sul mare e il sinistro sulla terra.[65]

L’«angelo» rappresenta un uomo, che aveva acquistato notevole potere tra le genti del «mare» Mediterraneo e nella «terra» d’Israele e che aveva la possibilità di scrivere un rotolo sacro. Tra le genti l’uomo aveva «sette» comunità dell’Asia Minore alle quali l’Apocalisse si rivolge.

Notiamo ora che, come non fu Giovanni a scrivere il Vangelo, così non poteva nemmeno sapere che gli «uomini» volevano rapire Gesù, perché si trovava tra la folla vicino al Lago e non a Gamla. Insomma chi lo sapeva e ha scritto il Vangelo era tra i seguaci di quell’«uomo», abitava a Gamla. In quella città, cioè nella «comunità di Giovanni» sono stati scritti il Vangelo di Giovanni ma anche l’Apocalisse. Perciò le «sette Chiese» dell’Asia Minore[66] erano da molto tempo unite a Gamla da una dottrina comune e probabilmente dal commercio. La dottrina e il potere che le teneva unite potevano provenire soltanto da un’unica mente.

Se, poi, ammettiamo che l’«uomo» risiedesse a nord della Palestina, la posizione dei suoi piedi vuole significare che era “rivolto” verso Gerusalemme e conferma che faceva parte di coloro che adoravano a Gerusalemme.[67]

Gamla era una città con amici a Gerusalemme e in Asia Minore. Dopo alcuni anni, l’evangelista ha scritto tre lettere a gruppi di cristiani molto caratteristici, con cultura e stile di vita diversi da quelli degli altri cristiani. Queste caratteristiche non erano di origine apostolica, ma anteriori, e si erano conservate dopo la conversione.

Anche l’evangelista Giovanni aveva conoscenze e amicizie diverse.

A Gerusalemme aveva dei conoscenti, giudei e non giudei, attraverso i suoi amici di Gamla aveva riferimenti in Galilea, in Samaria e in Perea. A Gerusalemme, Luca e altri notabili l’avevano aiutato a convincere gli abitanti di Gamla e anche comunità di Greci. Abbiamo visto che alcuni greci avevano creduto.[68] Giovanni e lo scriba che ha composto il Vangelo li avevano sempre nel cuore, infatti scrissero questo commento: “… Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”.[69]

Nella città-fortezza, dopo il miracolo dei pani, uno scriba o dottore della legge[70] incominciò dunque a copiare su un rotolo[71] le testimonianze scritte di Giovanni, con un’introduzione, o Prologo,[72] che si comprende bene solo se scritto in questo momento della vita pubblica di Gesù. Infatti non fa il minimo accenno alla morte e risurrezione del Signore, mentre esprime il rammarico per non aver accolto subito la sua luce e per non aver capito che il Battista, da poco decapitato per ordine di Erode Antipa, era venuto proprio a rendere testimonianza a essa.

L’introduzione è un testo di tipo scolastico, con concetti che venivano dalla cultura greca,[73] ben integrati nella rigorosa osservanza della Legge di Mosè. Era facilmente comprensibile a Giovanni e ai suoi condiscepoli di Gamla, che ora accoglievano con entusiasmo la grazia e la verità di Gesù Cristo, appena incontrate.

Colui che trascriveva le testimonianze di Giovanni, aveva accanto il ragazzo e completava il racconto storico chiedendogli altre informazioni, facili da ricordare a memoria con precisione o da raccogliere nella realtà; inseriva nel testo alcune delucidazioni, esaurienti ma brevissime ed essenziali, sulla situazione storica e geografica in cui erano avvenuti i fatti; rispettava perfino i tempi presenti dei verbi, come li aveva scritti il ragazzo.

Usava un linguaggio aderente al modo di parlare di Galilea, ma era vero linguaggio greco. Tutto questo era possibile se chi scriveva abitava a Gamla, città lontana da Gerusalemme e dedita a un intenso commercio internazionale con i Greci.

Da allora Giovanni scrisse le sue testimonianze per confermare nella fede i “fratelli” di Gamla e d’Asia, «perché avessero vita nel nome di Gesù Cristo». Giovanni scriveva soprattutto quello che Gesù faceva a Gerusalemme, perché là trovava qualcuno che lo aiutava a scrivere fornendogli il materiale.

Sempre le testimonianze venivano portate nella città-fortezza di Gamla e venivano diffuse nelle comunità consorelle dell’Asia Minore.[74] La testimonianza di Gesù Cristo[75] fu scritta su un rotolo, perché in Palestina era tenuto in grande onore ciò che era scritto, ma fu annunciata a voce alle comunità della diaspora dei Greci,[76] perché tra questi valeva di più l’annuncio a voce.

Queste informazioni, che abbiamo raccolto dal Vangelo, dall’Apocalisse, da altre fonti storiche e dall’archeologia, permettono di capire come il Vangelo di Giovanni fu redatto durante lo svolgersi dei fatti, ad opera di almeno due persone: Giovanni di Zebedeo e una scriba di Gamla.[77] Questo Vangelo, in tal modo, non ha più niente di oscuro.

 

Luca a Gerusalemme

 

Un giovane straniero, di nome Luca, viveva a Gerusalemme da alcuni anni; la tradizione dice che era di origine greca, di Antiochia di Siria, dove risiedeva il procuratore romano di Siria. Aveva terminato i suoi studi a Gerusalemme, con maestri come Gamaliele. Alla scuola di questi maestri aveva visto poi anche di Saulo di Tarso, una decina d’anni più giovane di lui, negli anni della predicazione di Gesù.

Era medico[78] nell’ambiente del Tempio. Lo si può immaginare perché gli ebrei aborrivano la medicina, per le sue molteplici implicazioni di impurità, e la lasciavano esercitare a stranieri non ebrei.

Era un funzionario pubblico ben conosciuto e ciò è confermato anche da quanto accadde alcuni anni dopo, che cioè fu scelto come garante per tutte le Chiese di una colletta svoltasi nelle città greche.[79]

A Gerusalemme era ormai integrato nel popolo ebreo, era cioè un prosèlito.

Infatti, negli Atti degli Apostoli, Luca ricorda che a Gerusalemme, dopo l’ascensione di Gesù, c’erano tra i primi cristiani anche molti ellenisti, cioè ebrei e non ebrei di lingua greca, che erano stati senz’altro discepoli di Gesù durante la sua vita pubblica. Tra questi furono scelti sette diaconi. Luca tiene molto a far notare che uno di loro, Nicola, era prosèlito di Antiochia, dopo aver ricordato un’altra cosa soltanto dei sette diaconi: la fede e la pienezza di Spirito Santo di Stefano.[80] Poiché anche Luca proveniva da Antiochia di Siria, poteva essere prosèlito di quella città, come Nicola. Così, essendo parte del popolo ebreo, poté diventare senza difficoltà discepolo di Gesù.

Luca, nei suoi scritti, si dimostra molto addentro alle cose ebraiche, benché scrivesse in greco: esperto della Legge ebraica e conoscitore dei notabili ebrei e romani; aveva rapporti stretti con l’ambiente romano per il suo lavoro in quanto, ad esempio, nel muro del Tempio era inclusa la fortezza Antonia. Era un funzionario pubblico professionista. Addirittura usava diversi linguaggi tecnici secondo la situazione e l’argomento.

A tutto questo ho trovato un’insperata conferma nel “Prologo antimarcionita”:[81] «Luca è un antiocheno di Siria, medico per professione, discepolo degli apostoli (ancora durante la vita pubblica di Gesù); poi passò al seguito di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio senza crimini non ebbe mai moglie, non procreò mai figli, morì a 84 anni in (Tebe, la metropoli della) Beozia, pieno di Spirito Santo».

Luca a Gerusalemme godeva senz’altro della protezione di qualche sacerdote potente.

Quando Gesù venne per la prima festa nella città santa, Luca conobbe Giovanni di Zebedeo. Si può affermare questo perché Luca, nel suo Vangelo, mostra di conoscere bene il Vangelo di Giovanni.

Questo evangelista era stato discepolo di Giovanni Battista, ben conosciuto nell’ambiente del Tempio per essere di famiglia sacerdotale, infatti suo padre, Zaccaria, frequentava il Tempio nei suoi turni di servizio. Al Tempio venivano quelli di Gamla, amici di Giovanni evangelista, che erano una popolazione mista di giudei e di siri, quindi della stessa gente di Luca.[82] Giovanni evangelista, in seguito, risulta essere «conosciuto dal sommo sacerdote»,[83] probabilmente attraverso Luca.

Abbiamo accennato all’ipotesi che Luca fosse la persona che «certificava con sigillo» le testimonianze scritte di Giovanni, in realtà il sigillo con cui le certificava poteva essere quello di uno dei sacerdoti. Giovanni, rivolgendosi a Luca, che era pubblico ufficiale nell’ambiente del Tempio e non era obbligato da alcuna setta a pensare che il Battista fosse il Messia, trovò fede e sigillo per le certificazioni.

Luca aveva compreso che l’importante, nella vita, è sapere chi è il vero Maestro, Re e Signore; che è un buon affare averlo incontrato, perché chi si appassiona per lui non dovrà pentirsi né sarà deluso. Quando veniva a sapere che Gesù arrivava a Betania, andava ad ascoltarlo; lo ascoltava a Gerusalemme; lo seguì anche in Perea e fino in Galilea, l’ultima volta che vi è tornato. Luca era un buon camminatore, era esperto di viaggi, infatti alcuni anni dopo seguì e aiutò Paolo di Tarso nei suoi viaggi missionari, per terra e per mare.

 

Gesù e il “vessillo”

 

Poco dopo la Pasqua dell’anno 32, Gesù, che molti consideravano ormai “re dei Giudei”, stabilì per sé un “vessillo”[84] con il suo stemma per poter accedere come Signore e Maestro a Gerusalemme.

Questo “maschera” o “finzione” era un elemento di cui si occupavano i giuristi, ma anche un segno visibile. Definiva giuridicamente il ruolo di una persona. Quando la “maschera” di Gesù si spostava era tenuta in notevole considerazione, riconosciuta ufficialmente dai Samaritani e motivo di orgoglio per gli apostoli, come Giacomo e Giovanni.[85] Ne parla Luca, che era addentro a queste cose; ne parla perché svolse un compito importante nel far riconoscere giuridicamente il ruolo di Gesù.

In quel momento sperava che il Messia-Re Gesù redimesse Israele, proclamandosi effettivamente re nella città santa e costituendo un regno di benevolenza e di pace, senza bisogno di scacciare i Romani.[86]

La maschera è dunque considerata da Luca e dagli altri discepoli e amici di Gesù come un elemento necessario della sua ascesa regale.

Luca, scrivendo il suo Vangelo, volle ricordare che Gesù fissò la “maschera” per andare a Gerusalemme, perché voleva assicurare l’autorità di Roma e di Gerusalemme che Gesù non era assolutamente un ribelle o un originale, ma era profondamente legato al centro della religione e della nazione ebraica, e perciò i cristiani potevano avere un influsso notevole su tutta la provincia di Siria - Palestina e contribuire non poco a renderla pacifica.

Anche Giovanni e i “fratelli” di Gamla, che avevano appena cercato di fare re Gesù, potevano essere d’accordo con Luca. Perciò anche colui che trascriveva le testimonianze dell’evangelista Giovanni si trasferì a Gerusalemme con il suo rotolo, pronto a scrivere per il Re; infatti da questo momento il Vangelo di Giovanni mostra il riferimento stabile a Gerusalemme. Insieme allo scriba, altri di Gamla incominciarono a seguire Gesù, pronti a difenderlo e a servirlo, perché «ritenevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro».[87]

 

ANNO 33

 

Implicazioni internazionali

 

Già il Padre dei cieli aveva preparato un’altra grande storia, quella di Roma e del suo impero, perché la Buona Notizia potesse diffondersi presto, con carità e benevolenza, in molte parti del mondo, tra genti che non credevano ancora in Lui, senza che i discepoli di Gesù facessero guerre, anzi nonostante dovessero sopportare in seguito molte persecuzioni. In quegli anni a Roma era imperatore Tiberio.

Gerico,[88] anno 33.[89]

Luca, avendo saputo che Gesù stava venendo a Gerusalemme, gli andò incontro per seguirlo, convinto che finalmente si sarebbe proclamato re.[90]

Sei giorni prima della Pasqua Gesù salì da Betania a Gerusalemme.

Anche un gruppetto particolare di “Greci” salì a Gerusalemme per il culto di quella Pasqua.

Chi erano questi Greci? Si può persare che fossero “fratelli” di Efeso o di un’altra delle «sette Chiese che sono in Asia». «Fin dal principio»,[91] probabilmente attraverso le vie dei mercanti,[92] Giovanni aveva fatto conoscere a voce le sue testimonianze tra seguaci greci della setta di Gamla e ora questi Greci venivano a vedere Gesù, che già conoscevano. Infatti i discepoli di Galilea li accolsero come fratelli. Certamente erano Ebrei della diaspora,[93] cioè Ebrei che vivevano dispersi tra le nazioni, fuori dalla terra d’Israele.

Si capisce che erano stranieri, perché si rivolsero a chi parlava greco, ma erano Ebrei perché se erano venuti «per il culto» e potevano celebrare la Pasqua come ogni buon ebreo.

Potevano anche diventare discepoli di Gesù. Quando infatti chiesero a Filippo, l’apostolo di Betsaida di Galilea, di poter vedere Gesù, Filippo lo disse ad Andrea e insieme lo riferirono al Maestro. Gesù si rivolgeva a loro, senza suscitare alcuna obiezione tra i Giudei, perché si trattava comunque di Ebrei, anche se di lingua greca. Notiamo pure che Gesù si rivolgeva direttamente a loro e non aveva bisogno di Filippo o di altri come interpreti, perciò sapeva parlare perfettamente il greco.

Gesù li accolse con parole simili a quelle che aveva già rivolto, in varie circostanze, ai discepoli che lo seguivano dall’inizio. E si sentì una voce dal cielo che diceva: «L’ho glorificato e lo glorificherò di nuovo!». Ma gli unici a capire che cosa diceva la voce furono coloro che parlavano greco, mentre per gli altri il suono delle parole[94] sembrava un tuono.

Gesù disse che la voce aveva parlato per loro, per quelli che l’avevano voluto conoscere; la voce dal cielo e le parole di Gesù furono efficaci su di loro.

Essi entrarono a far parte del gruppo che credeva, opposto ai molti che in quel momento non volevano credere. Chi ha scritto era molto vicino a loro, infatti non aveva bisogno di dilungarsi; si nota una sua reticenza a scrivere, propria di chi è coinvolto direttamente. Quei Greci diventarono definitivamente discepoli di Gesù.

Giovanni non parla più dei Greci: non si dovevano rivelare troppe cose su questi “fratelli”.

Ecco, dunque, che nel Vangelo di Giovanni troviamo ancora i Giudei che non credevano e i Greci che subito cedettero, mentre l’evangelista si rivolgeva normalmente a una sola comunità, che abbiamo capito essere quella di Gamla.

 

Marco a Gerusalemme

 

Qui, nella città di Gerusalemme, viveva un giovinetto di nome Giovanni Marco, un nome metà ebraico e metà romano. La sua mamma si chiamava Maria e possedeva una casa in città.[95] Marco in questi giorni vide Gesù predicare nel Tempio. Lo seguì da vicino e lo vide ogni sera uscire dalla città e andare a Betania per riposare.

In quei giorni si compirono a Gerusalemme gli avvenimenti culminanti della vita pubblica di Gesù. L’evangelista Giovanni fissò per iscritto quello che il Maestro disse durante l’ultima cena pasquale con i suoi discepoli.

«Nel mondo avete tribolazione; ma, coraggio, io ho vinto il mondo!».[96] Gesù Cristo diceva queste parole all’evangelista Giovanni, un ragazzo di circa 17 anni che, come tanti altri, desiderava ben altro che il male presente nel mondo. Quale consolazione sapere che uno ha vinto tutto questo! Quale speranza nasceva dall’aver conosciuto questa persona! Il giovane non si sentiva condizionato dal mondo, con i suoi affanni e le limitazioni che impone, si sentiva rinvigorito da Gesù Cristo e fondato sulla roccia di una vita abbondante ed eterna.

Di notte Giuda, uno dei Dodici apostoli, guidò un distaccamento di soldati e di guardie dei sommi sacerdoti nel giardino del Getzemani, dove Gesù stava pregando, così che poterono arrestarlo, eludendo anche la vigilanza dei discepoli di Gamla.[97]

In quel momento Marco era là a vedere. I soldati cercarono di prenderlo, ma egli fuggì lasciando nelle loro mani il lenzuolo, con cui si era coperto uscendo di casa.

Gli apostoli si dispersero come un gregge senza pastore, ma Gesù, dopo aver predetto che sarebbe risorto, aveva loro ordinato di recarsi in Galilea, dove certamente avrebbe riunito il suo gregge.[98]

 

L’incontro sulla strada di Emmaus

 

Gesù venne giudicato dai sacerdoti e dagli anziani, che indussero la folla dei Giudei a farlo condannare a morte da Pilato. Crocifisso il giorno della Preparazione della Pasqua, che quell’anno si celebrava il sabato 3 aprile, risuscitò il giorno dopo la Pasqua, “domenica” 5 aprile.

Le donne videro il sepolcro vuoto e avvisarono Pietro e Giovanni. I due apostoli corsero al sepolcro e videro «le bende appiattite, e il sudario, che era (legato) sul suo capo, non appiattito tra le bende, ma avvolto in rilievo, pressoché nella posizione primitiva».[99] Nel modo in cui è stata scritta questa testimonianza sembra ci sia lo stile di Luca.

Sia gli angeli che Gesù stesso, nella prima apparizione alle donne, raccomandarono che gli Undici si recassero presto in Galilea, come erano d’accordo. «Là» avrebbero visto Gesù. Questo invito è ripetuto con insistenza nel Vangelo di Matteo, senza mai precisare il luogo dell’appuntamento. Ci doveva essere un motivo importante per non scriverlo, però gli Undici dovevano andare «sul monte che Gesù aveva loro fissato».[100]

Quello stesso giorno in cui Gesù era risorto, due discepoli abbandonavano Gerusalemme per dirigersi a Emmaus.[101] Erano delusi, perché il loro Re e Signore non aveva compiuto quanto speravano, e preoccupati per quello che i sacerdoti e i capi avrebbero potuto fare anche ai discepoli. Ma Gesù, durante il viaggio, si unì alla loro discussione senza essere riconosciuto e spiegò che le Scritture parlavano di lui. Quando si fermarono a mangiare, spezzò il pane come nell’ultima cena prima di morire in croce, e allora lo riconobbero. Scomparve dai loro occhi ed essi tornarono a Gerusalemme in quella stessa ora.

Giuseppe Flavio[102] ci ricorda che la località di Emmaus, distante 30 stadi da Gerusalemme, dopo l’anno 73 fu assegnata da Vespasiano a 800 suoi veterani. Il villaggio cambiò nome e corrispondeva all’odierna Qoloniya, che fu abbandonata nel 1948. I 60 stadi, di cui parla Luca,[103] sono la strada percorsa effettivamente dai due discepoli quel pomeriggio, seguendo le vie tortuose di collina: poco più di 11 km.

Il punto interessante del brano è che, mentre i testimoni di questa apparizione di Gesù risorto, sono due, viene ricordato il nome di uno solo di loro, quello di Cleofa. Cleopa, o Cleofa, era il marito di Maria, «sorella» della madre di Gesù,[104] che seguiva anch’essa il Maestro. Infatti l’uomo dice: «Ma alcune donne, delle nostre...».[105] Non viene più nominato, nel Vangelo di Luca. Suo figlio, Simeone, succederà nel 65 a Giacomo di Alfeo, alla guida della Chiesa di Gerusalemme.

A quel tempo, come oggi, era sempre necessario che i testimoni di un fatto importante fossero almeno due[106] e ben individuabili. Luca è molto prudente nello scrivere nomi, nel timore di compromettere qualcuno di fronte ai Romani. Ma nomina Cleofa, dovendo presentare all’autorità ebraica e romana i testimoni della risurrezione di Gesù. Tuttavia, leggendo con più attenzione, notiamo che sono raccontati tutti i dettagli, i pensieri e i sentimenti dei personaggi, come se chi narra fosse stato protagonista del fatto. C’è perciò una sola possibilità per spiegare l’omissione di un nome: che l’altro sia colui che ha scritto. Luca non si è nominato per modestia ma anche perché era ben noto come pubblico ufficiale. Ora, la testimonianza scritta è valida perché l’autore stesso è il secondo testimone e, per giunta, pubblico ufficiale.

Ecco un’altra chiave per risolvere i problemi storici dei Vangeli: Emmaus.

A Emmaus Gesù si manifestò risorto. I due discepoli di Gesù tornarono da Emmaus a Gerusalemme, quella sera, trovarono gli altri di nuovo riuniti ed ebbero conferma della risurrezione. L’evangelista Luca era lì, uno dei due, e si era trovato sempre a Gerusalemme durante la vita pubblica di Gesù. L’apparizione di Gesù a Luca ha aumentato la sua autorità di pubblico ufficiale tra i cristiani. Questo uomo è stato considerato fin dall’inizio autore del terzo Vangelo.

Luca è stato testimone oculare e protagonista di alcuni momenti della vita pubblica di Gesù, perchè narra questo e altri episodi, a cui gli altri evangelisti non accennano.

Nel racconto dell’episodio di Emmaus, possiamo vedere delineato con precisione il carattere di Luca. Nello stesso tempo egli, funzionario pubblico dipendente da ebrei, si fa conoscere come autorevole membro della Chiesa di Gesù di fronte all’autorità ebraica e romana, perché, se Gesù gli apparve, è perché egli era già suo discepolo e faceva già parte della Chiesa.

Il Signore risorto lo confermò in tal modo nel suo compito: come l’aveva servito nella sua vita pubblica, così avrebbe risolto i problemi istituzionali per l’edificazione della prima comunità cristiana e avrebbe contribuito a stabilire norme liturgiche e di vita per la Chiesa.

Qui, nell’anno 33, Luca doveva essere abbastanza giovane perché dopo il 63 possiamo ritrovarlo in piena attività: ancora poteva viaggiare sulle navi e sopportare il disagio della tempesta, aveva buona vista per scrivere, poteva ancora compiere il suo lavoro di uomo di legge e di medico, ecc. Possiamo pensare che nel 33 avesse circa venticinque anni, cioè che fosse abbastanza adulto per essersi interessato, già nel 32, di azioni ufficiali in favore di Gesù, ma abbastanza giovane per proseguire la sua attività di scrittore fino al 66 circa. Si può, a questo proposito, ragionare su un particolare: Luca doveva avere una vista buona e normale, perché scriveva, viaggiava faceva il medico; ma una persona con vista normale dopo i cinquant’anni fatica a leggere e a scrivere a causa della presbiopia. Egli, secondo la testimonianza del “prologo antimarcionita” e di San Girolamo,[107] morì a 84 anni, un’età considerevole per quei tempi, segno di ottima salute e probabilmente  ci vide bene a scrivere fino in età avanzata.

Tra i compiti che Luca sentì propri, c’era quello di collaborare con Matteo e Giovanni a fissare per iscritto le parole e opere di Gesù.

Riflettiamo un po’: il Signore, che era anche uomo, non poteva rimanere sulla terra per sempre, la sua vita doveva essere quella normale per un uomo, era perciò necessario che il momento in cui egli, vero Signore e fondamento della nostra vita, si era fatto incontrare, rimanesse storicamente sicuro e che si potesse sempre conoscere e incontrare lui di nuovo.

È quanto ci è stato donato attraverso i Vangeli, ma che poi si realizza pienamente nella Chiesa e nei Sacramenti.

 

La prima conclusione del Vangelo di Giovanni

 

Dopo la risurrezione del Maestro, Giovanni scrisse la testimonianza sugli ultimi avvenimenti di Gerusalemme e la fece certificare da una persona, per interessamento di Luca. Infatti “quel” personaggio poteva garantire che chi aveva visto aveva reso una testimonianza veritiera sul modo in cui Gesù era morto. Era un personaggio che aveva già certificato, perché Giovanni lo dà per chiaramente conosciuto.[108]

Questa testimonianza non aveva più lo scopo di richiamare alla fede persone che non credevano, ma quello di garantire che Gesù era morto veramente in quel modo.

Qui, in città, venne copiata sul rotolo, insieme alle testimonianze sulle apparizioni a Gerusalemme che servivano a garantire che Gesù era risorto, dalla stessa persona che aveva copiato le altre, con questa conclusione e certificazione, rivolta ai fratelli di Gamla:[109]

«Molti altri segni fece Gesù di fronte ai suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché credeste[110] che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e, ora che credete, perché abbiate vita nel suo nome».

Giovanni scriveva soltanto alcuni episodi importanti, altrimenti sarebbero stati necessari moltissimi libri.[111] Prima scrisse perché a Gamla credessero e poi perché avessero vita in Gesù Cristo. Questo significa che c’era già qualcos’altro di scritto. Infatti Matteo aveva steso di volta in volta il «resoconto» degli altri fatti rilevanti, in “ebraico”.[112] Il racconto di Matteo era complementare a quello di Giovanni.

Il Vangelo di Giovanni contiene «segni», lezioni fatte di discorsi e azioni, annotate accuratamente.

La storia dei Vangeli si ricostruisce partendo dalle dichiarazioni che essi stessi contengono.

 

La seconda conclusione del Vangelo di Giovanni

 

Circa quindici giorni dopo la risurrezione di Gesù, si trovavano insieme, sul mare di Tiberiade nei pressi di Betsaida,[113] in Galilea, cinque apostoli: Simon Pietro, Tommaso, Natanaele, i due figli di Zebedeo che si chiamavano Giovanni e Giacomo, e c’erano altri due discepoli un po’ misteriosi: erano l’autore del Vangelo di Giovanni e colui che certifica insieme a lui.

Tutti questi erano là per obbedire al comando insistente di Gesù, che gli Apostoli si recassero in Galilea[114], ma soltanto gli Undici.[115] I due estranei erano lì perché avevano un compito speciale. Gli Undici sapevano anche che «tra non molti giorni» sarebbe venuto lo Spirito Santo promesso da Gesù, e anch’essi, come Gesù aveva ordinato a tutti i discepoli, dovevano essere presenti a Gerusalemme.

Per obbedire ai due comandi di Gesù, gli Apostoli si stavano recando in Galilea, a gruppetti e non tutti insieme. Non sapevano, di preciso, quando il Signore sarebbe apparso. Alcuni, attardandosi un po’, ripresero anche il lavoro di pescatori: quando Gesù fosse apparso loro, sarebbero tornati in fretta a Gerusalemme

Mentre i sette discepoli tornavano ormai dalla pesca sul lago, senza aver preso nulla per tutta la notte, il Signore apparve all’alba e compì un ultimo miracolo: fece sì che pescassero «centocinquantatre grossi pesci».[116] Era la terza volta che appariva a un gruppo dei suoi.

Giovanni scrisse immediatamente la relazione dell’avvenimento, come annotazione autentica dell’evangelista. Era un racconto circostanziato e vivace, con i verbi al presente. Era presente anche lo scriba autore del Vangelo con l’altro discepolo che faceva testimone, ma essi erano maestri e dovevano scrivere in modo adatto ai loro allievi, per cui facevano scrivere prima a Giovanni,[117] che era pure stato loro allievo.

Lo scriba trascrisse immediatamente questa relazione, sul rotolo, e aggiunse una nuova conclusione, dove è dichiarato che il redattore finale del Vangelo di Giovanni non è l’apostolo ma un'altra persona:

Questo è il discepolo[118] che rende testimonianza su queste cose e le ha scritte; e sappiamo che la sua testimonianza è vera.

Vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha compiuto: se fossero scritte una per una, penso che nemmeno il mondo stesso avrebbe contenuto i libri che sarebbero scritti.

Gv 21,24-25

 

Il discepolo (Giovanni) ha scritto prima, nell’unico tempo utile per rendere testimonianza, cioè durante i fatti. Uno scriba ha trascritto le sue testimonianze su un «piccolo rotolo»[119] e le certifica insieme a un’altra persona, almeno, rendendo valida per sempre la sua testimonianza storica. Soltanto così ha senso questa conclusione. La redazione originale si deve ritenere conclusa al tempo di questi avvenimenti, meno di quaranta giorni dopo la risurrezione di Gesù Cristo.

Perché?

La formula finale del Vangelo certifica che Giovanni di Zebedeo ha scritto, di suo pugno, cose di cui è stato testimone.[120]

Una frase del capitolo 21 ha fatto pensare che questo fosse stato aggiunto dopo il martirio di Pietro a Roma, ossia dopo il 67, ma si è trattato della particolare interpretazione di un verbo, che in greco è al futuro: «Questo egli ha detto per indicare con quale morte glorificherà Dio».[121]

Sarebbe stato inutile garantire l’autenticità di quanto Giovanni aveva scritto, se non per dire che l’aveva fatto immediatamente durante gli avvenimenti e in modo particolarmente fedele. L’intenzione non poteva essere quella di far risalire lo scritto all’autorità di un Apostolo, perché l’autore del Vangelo si mette in primo piano, manifestando un suo pensiero («penso che…») al presente, e almeno due persone devono certificare le testimonianze di Giovanni, scritte in passato, come se appunto Giovanni non avesse ancora l’autorità per garantire quanto aveva scritto.

Lo scriba autore del “libro” ripete che si potevano scrivere molte altre cose, perché ne ha dovuto aggiungere una, un fatto importante successo dopo aver scritto la prima conclusione, e vuole giustificare questa indecisione nello scrivere. Non poteva di certo prendere un altro rotolo e rifare tutto quanto per mettervi una conclusione sola. Un rotolo aveva un grande valore. Nello stesso tempo, l’autore si rese conto che l’aggiunta improvvisata avrebbe mostrato, in modo ancora più evidente, l’immediatezza delle testimonianze di Giovanni e della propria opera di trascrizione. Questo rotolo era l’unico libro che venne portato di qua e di là, dove occorreva, per raccogliere le testimonianze adatte a persuadere i fratelli di Gamla a credere.

La presenza di un dottore o scriba, che ha trascritto, e il dettato di Gesù spiegano la sapienza del Vangelo di Giovanni. Il legame dello scriba e di Giovanni con Gamla spiega il linguaggio particolare che Gesù ha usato, adatto discepoli e ai maestri di quella città.

Fatte queste ipotesi, subito l’orizzonte si allarga e diventano chiare tutte le fasi della redazione del Vangelo di Giovanni.

Si può ben dire che Gamla è il motivo che ha dato inizio all’opera letteraria degli evangelisti, è presente come chiave di lettura al centro dei Vangeli, quando Gesù moltiplicò i pani e i pesci, ed è il luogo dove Gesù appare per l’ultima volta risorto nel racconto di Matteo.

 

Gesù affida la missione a quelli di Gamla

 

Ora, perché Gesù raccomandò ripetutamente ai suoi più intimi discepoli, quasi in segreto, di andare su un monte in Galilea?

Egli preparava un’apparizione molto significativa. Non occorreva andare fin là perché il Signore potesse affidare agli Apostoli la missione verso tutte le genti, se non c’era un altro motivo importante, che viene tenuto segreto dall’evangelista Matteo. Aveva già affidata loro la missione a Gerusalemme.[122] Gesù voleva che gli Apostoli si recassero sul monte di Gamla a rendere testimonianza di fronte ai “fratelli” di quella città, che erano in numero rilevante, sui fatti accaduti a Gerusalemme in quei giorni di Pasqua dell’anno 33. Sulla morte e la risurrezione di Gesù e, in particolare, sull’istituzione dell’Eucaristia. E dovevano essere garanti dell’unità della missione alle genti. Fino a quel momento a Gamla avevano creduto e non avevano visto altro che il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, vicino alla Pasqua dell’anno precedente. Il giorno dopo il miracolo, Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, aveva promesso il «pane vivo disceso dal cielo». Nei giorni appena trascorsi aveva realizzato la promessa, ma i “fratelli” di Gamla non erano presenti e non avevano visto.

Quale compito avevano, allora, quei due discepoli che si erano mescolati agli Apostoli?

Dovevano recarsi anch’essi a Gamla per portare ai “fratelli” il rotolo con le testimonianze già scritte e certificate, perché anche chi «non aveva visto» potesse credere. Ma attraverso quelli di Gamla la testimonianza doveva arrivare anche ai “fratelli” d’Asia Minore, che non avevano visto il Maestro predicare e agire, morire e risorgere, e già credevano; in modo speciale per loro Gesù, pochi giorni prima, aveva detto a Tommaso: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto»[123].

Notiamo adesso che, negli ultimi fatti narrati da Giovanni, Matteo e Marco, si vede come vanno d’accordo tra di loro i Vangeli. Infatti convergono tutti, in un modo o nell’altro, nel mostrare che Gesù concluse la sua presenza terrena unificando il suo gregge apostolico.

Abbiamo constatato che in Matteo e Marco troviamo ripetuti inviti di Gesù agli Apostoli perché si recassero in Galilea, “là” avrebbero visto Gesù;[124]. Nel capitolo 21 di Giovanni è ricordato che Gesù, dopo essere apparso sulla riva del lago, richiese a Pietro una “professione di carità” e gli affidò, i suoi «agnelli» e le sue «pecore» (e c’erano pecore che non appartenevano al suo consueto ovile),[125] poi gli disse: «Seguimi». Ma dietro a Pietro venivano gli altri. Dove si stava dirigendo il Signore? Le ultime righe del Vangelo di Matteo ci fanno capire che da Betsaida, in Galilea dove aveva dato appuntamento, si stava recando «là», «sul monte che aveva loro fissato»[126] e che era un po’ fuori dalla Galilea. Non ne viene specificato una sola volta il nome. Questo luogo continuamente misterioso, perché potesse essere ben identificato dai cristiani rimanendo segreto per i Romani, doveva essere sempre lo stesso: Gamla. E i suoi abitanti, mai nominati, dovevano essere sempre gli stessi nei diversi Vangeli e negli altri libri del Nuovo Testamento: i “fratelli” di Giovanni.

Così gli Undici si ritrovarono insieme sul monte di Gamla, che si trova a nord est del Lago di Galilea, poco fuori di questa regione e vicino al luogo dove Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci.[127] «Quando» Matteo e gli altri cinque «lo videro» arrivare con quelli che erano andati a pescare, «gli si prostrarono innanzi» perché avevano già visto altre volte, «in circostanze probanti»,[128] Gesù risorto; «alcuni invece», i “fratelli” di Gamla, «esitarono. E Gesù, avvicinatosi, parlò loro…». In quel momento stava riunendo tutto il suo gregge disperso.[129] In tal modo i fratelli di Gamla poterono vedere, tutti insieme, Gesù risorto e ricevere anch’essi da Gesù il mandato missionario. Essi avevano già contatti internazionali: sarebbero stati di appoggio ai Dodici e poi a Paolo di Tarso.[130]

Luca, da parte sua, non accenna alla visita degli Apostoli in Galilea, perché, come vedremo, scriveva per l’imperatore di Roma, e Gamla era avversa ai Romani. Ma nessun evangelista rivela il nome del luogo, di quel monte, per lo stesso motivo: anche i Romani potevano leggere i Vangeli.

 

“Più di cinquecento fratelli”

 

Quanti erano coloro che incontrarono Gesù su quel monte?

Erano i «più di cinquecento fratelli» di cui parla S. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. A loro il Signore e Maestro ripeté l’affidamento della missione, alla presenza degli Undici.

Paolo dice:

«…e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto».[131]

 

Come possiamo riconoscere che i “fratelli” di Giovanni a Gamla erano quelli nominati da Paolo?

Paolo, che riceveva informazioni di prima mano da Luca, voleva ricordare che Gesù risorto apparve «a tutti gli apostoli», ma ne fa emergere alcuni per la loro importanza. Tra questi, il gruppo di «più di cinquecento fratelli» viene subito dopo i Dodici, in ordine di tempo e di importanza.

Le apparizioni ricordate da Paolo avvennero entro i quaranta giorni dopo la Pasqua, come afferma Luca negli Atti, eccetto quella a Paolo stesso, non una vera apparizione (vide una luce e udì la voce di Gesù), tre o quattro anni dopo. In quei giorni non c’erano ancora comunità fondate dagli Apostoli, così numerose. Leggiamo:

«Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, in molte circostanze probanti, apparendo loro per quaranta giorni e parlando delle cose del regno di Dio».[132]

 

Apparve «in molte circostanze probanti», per coinvolgere «tutti gli apostoli», tutte quelle persone che Gesù mandava da Gerusalemme nel mondo, al modo dei Dodici Apostoli, e che dovevano attendere di essere «battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni».[133]

Se i «più di cinquecento» erano un gruppo degno di diventare apostolico, erano senz’altro già “fratelli” cristiani. Ma, se erano già tutti insieme compatti come “fratelli” quando Gesù apparve e li fece apostoli, chi li aveva riuniti, entro i quaranta giorni dopo la Pasqua, mentre stavano insieme a fatica e con paura perfino quelli che avevano sempre seguito Gesù fino a Gerusalemme?

 Avevano perciò un altro motivo, precedente, per essere e rimanere insieme indipendentemente dai fatti di Gerusalemme. Non si trovavano a Gerusalemme. Appartenevano a una comunità unita già prima, a una setta molto distinta[134] dagli altri ebrei e isolata, molto compatta nel distinguersi e nel difendersi, che si era convertita compatta per motivi molto seri, come l’aver scoperto il vero Messia attraverso la sollecitudine dell’adolescente Giovanni, per cui aveva voluto farlo Re e voleva servirlo.[135] I ragionamenti che abbiamo già fatto su Gv 6,14-15 permettono di identificare un gruppo di persone di Gamla con quelli che volevano fare re Gesù.

Dovevano essere molto noti e molto attivi[136] perché Paolo potesse seguire sempre le loro vicende e perché, essendo testimoni importanti della risurrezione, non spieghi chi erano.

Luca, che, come vedremo si rivolgeva a un personaggio che faceva da avvocato presso i Romani, evita accuratamente di parlarne e questo fa capire che i 500 non erano graditi ai Romani. Dunque un gruppo apostolico importante, sgradito ai Romani, che abitava dalle parti della Galilea, su un monte, non poteva essere che un gruppo di Gamla.

Gli Undici sono andati da loro sul monte, presso la Galilea, e Gesù esprimendo il suo potere regale universale li ha mandati come “apostoli” benché fossero abituati a una vita isolata da quella degli altri ebrei per custodire più fedelmente la Legge di Mosè.

Nel nostro tempo e nei secoli passati molti muri di difesa sono stati abbattuti, molti piccoli orti, coltivati con cura e sudore, sono stati calpestati da poteri e interessi che appaiono superiori alla nostra piccola vita, sempre meno rispettata. Eppure, duemila anni fa, un uomo schivò con divina abilità qualsiasi potere umano e interesse dei potenti, per mandare invece, dopo essere stato inchiodato in croce ed essere risorto, gruppi di persone a portare fino ai nostri giorni il suo pacifico e umile potere universale, divino e umano, di dare vita e immortalità, proprio incominciando dai più piccoli. Dalle sue mani niente della nostra vita andrà perduto, ed egli sarà con i suoi fedeli tutti i giorni, fino alla conclusione di questi secoli.

 

Alcuni di Gamla si recarono a Gerusalemme

 

Gli Undici annunciarono ai fratelli di Gamla la promessa di Gesù, che entro pochi giorni lo Spirito Santo sarebbe sceso sui discepoli a Gerusalemme e prima di partire per la missione dovevano attendere questo avvenimento.

Alcuni di essi li seguirono a Gerusalemme per aspettare lo Spirito Santo con gli altri, anche nella speranza che Gesù finalmente ricostituisse il regno di Israele,[137] Si trovarono insieme circa centoventi persone.[138]

Gesù, quaranta giorni dopo la risurrezione, salì al cielo.

Il giorno della Pentecoste, il 23 maggio dell’anno 33, lo Spirito Santo scese anche su di loro e tutti diventarono una sola comunità. Tutti gli “apostoli” riuniti il giorno di Pentecoste erano di Galilea,[139] compresi questi di Gamla.


DOPO L’ASCENSIONE DI GESÙ AL CIELO

 

ANNI 33-34

 

Una copia del “rotolo” per Giovanni

 

 A Gerusalemme c’erano dei credenti che influenzarono profondamente la Chiesa dei primi tempi, con il proprio stile di vita comunitaria e di condivisione piena di tutti i beni. Potevano essere esseni,[140] amici dei “fratelli” di Gamla che erano stati zeloti,[141] affini a loro.

Poiché anche le testimonianze di Giovanni erano un bene da condividere con tutti gli altri discepoli di Gesù nella comunità di Gerusalemme, Luca invitò l’evangelista Giovanni a richiedere il rotolo[142] che era proprietà della comunità di Gamla.

Lo scriba di Gamla aveva intanto aggiunto in margine al testo del rotolo alcune note, man mano che i discepoli suoi “fratelli” comprendevano il significato di alcune delle cose testimoniate da Giovanni.[143] Se precisò che “compresero dopo la risurrezione”, fu perché prima di essa, cioè durante gli avvenimenti, il discepolo aveva scritto senza comprendere. Lo Spirito Santo avrebbe fatto conoscere e comprendere ogni cosa, con il tempo, ma al momento della redazione finale del Vangelo non appare che Giovanni e gli altri discepoli avessero capito ancora del tutto: l’importante per loro era di credere in Gesù e intanto trascrivere le sue lezioni e i “segni” con esattezza.

Nel copiare il rotolo, vennero aggiunte alcune annotazioni, alcune frasi che dovevano servire da spiegazione per chi non viveva in Palestina. Questo perché, come leggiamo in Ap 10,11, Giovanni doveva «profetizzare di nuovo su molti popoli, nazioni e re». Ma la maggior parte delle annotazioni venne mantenuta ai margini del testo.

 

Aspetto del Vangelo di Giovanni

 

I fratelli di Gamla conservarono nella loro comunità il rotolo originale e consegnarono la copia all’apostolo.

Da questa copia il Vangelo è arrivato fino a noi. Risulta frammentario perché originato da circostanze e avvenimenti occasionali, quando Giovanni aveva il materiale per scrivere e Gesù gli dava lezioni importanti, soprattutto alle feste di Gerusalemme, ma trascritto e curato sempre dalla stessa persona, con linguaggio costante e, in fin dei conti adatto a un adolescente.

Chi ha trascritto ha cercato di collegare bene i frammenti, attraverso informazioni fresche di Giovanni stesso. Vi si possono cogliere le situazioni in cui si è trovato l’evangelista Giovanni mentre annotava le sue testimonianze.

Giovanni è molto schietto e la saggezza che scopriamo nel suo Vangelo dipende dal trascrittore di Gamla, per quanto riguarda i brevi commenti e l’ambientazione, ma da Gesù stesso per quanto riguarda i fatti e i discorsi. Le testimonianze, originali di Giovanni, non furono mai “riordinate”, né trasformate con interpretazioni.

Il Vangelo di Giovanni diventò un bene della comunità cristiana a Gerusalemme e lo potevano consultare gli altri evangelisti. Infatti Lc 24,12 e Gv 20,5 sono evidentemente copiati l’uno dall’altro, in greco; Matteo ha copiato alcune frasi da Giovanni; ci sono particolari che coincidono in Giovanni e Marco; ecc.

 

Luca raccolse testimonianze diverse e aggiunse le sue

 

Come già ho accennato, Luca di tanto in tanto aveva presentato a una personalità ebraica il resoconto orale[144] di quello che faceva Gesù. Questo personaggio aveva riferito a Tiberio che il Maestro e Messia stava raccogliendo «folle» di discepoli, e rispettava tutte le leggi di Roma.

Anche quando Gesù fu crocifisso, senza che il sacerdote amico di Luca e Giovanni potesse impedirlo, Tiberio aveva continuato a ricevere notizie positive, perché Gesù era apparso risorto ai suoi discepoli e si stava affermando la Chiesa guidata da Pietro, legato già a Roma per la sua attività di pescatore.

I seguaci di Gesù Cristo aspettavano che egli instaurasse il Regno di Dio; le prime avvisaglie della realizzazione di questo regno si ebbero con alcuni sacerdoti che aderirono alla fede.[145]

Luca, perciò, poteva fornire sue testimonianze personali sui fatti che riguardavano Gesù e che Matteo e i suoi scribi non avevano scritto nella loro «relazione».

Luca l’aveva ben presente anche prima che fosse pubblicata ed era in grado di completarla in ordine cronologico.

Raccolse informazioni sulla nascita di Giovanni Battista, che i conoscenti di lui conservavano con precisione a memoria («nel loro cuore»). Da Maria apprese gli avvenimenti della nascita e dell’infanzia di Gesù, che lei pure «conservava nel suo cuore».

E poi Luca, per la professione che esercitava, conosceva i ricchi proprietari delle campagne di Giudea, i farisei più influenti e anche i pubblicani, soprattutto quelli che abitavano intorno a Gerusalemme. Nelle loro case poté assistere alle cose straordinarie che Gesù diceva e faceva, ascoltò parabole che Matteo non scriveva.

Non si deve poi dimenticare che alcuni di questi ricchi avevano venduto i loro averi e avevano messo i loro beni a disposizione della Chiesa; e anch’essi «erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere».[146] Luca è testimone della vita sociale di Gerusalemme e dintorni, al tempo di Gesù, in tutta la sua complessità.

In tal modo ha potuto avere a disposizione veramente testimonianze esatte.

 

Il primo Vangelo pubblicato

 

Secondo una notizia dei Padri della Chiesa, Papia, Ireneo e Origene, che non trova riscontro adeguato nei libri trasmessi fino a noi, Matteo pubblicò per primo un Vangelo in “lingua ebraica”.

Questo avvenne prima dell’anno 38. L’evangelista Matteo pubblicò la sua «relazione»[147] della vita pubblica di Gesù, probabilmente in codex, non adatto alle sinagoghe. Questa pubblicazione, nonostante avesse un aspetto poco letterario, era una narrazione fedele e testimoniata dei fatti.[148]

Invece Giovanni e i suoi «fratelli» non pubblicarono i loro scritti, conservarono il rotolo a Gamla, come libro della comunità particolare della comunità, e la copia come libro dell’apostolo. La “setta” di Gamla si considerava pienamente unita alla Chiesa ma continuava a coltivare, da cristiana, la sua vita e dottrina ebraica.

 

ANNI 34-40

 

Passarono alcuni anni, in cui la Chiesa si espandeva e alcune volte veniva perseguitata, come Gesù aveva predetto.

A Gerusalemme tra i discepoli di Gesù si faceva un parlare serrato delle sue opere e parole e, in particolare, delle sue profezie, come è testimoniato poi dagli Atti degli Apostoli, dall’Apocalisse[149] e dalle lettere di san Paolo.[150] Luca era protagonista di tutto questo.[151]

Si vedeva, nella conversione di molti sacerdoti a Gesù Cristo, l’inizio del Regno di Dio.

Gli Apostoli venivano rispettati anche per l’opera di Luca e del sommo sacerdote di cui parleremo subito. Questo rispetto perdurò anche quando alcuni della Sinagoga dei Liberti, a cui apparteneva anche Paolo di Tarso, cittadino romano, sorsero contro Stefano, uno dei sette diaconi ellenisti, e lo accusarono: «Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè».[152] Poi lo lapidarono, come bestemmiatore, per aver mostrato attraverso le Scritture che Gesù era il Cristo, superiore alla legge e al Tempio, ormai seduto alla destra di Dio. Allora i discepoli di Gerusalemme si dispersero per la Giudea e la Samaria; tuttavia gli Apostoli rimasero in città.

 

Tiberio e i Cristiani

 

Mentre a Gerusalemme gli animi erano ancora accesi per la crocifissione di Gesù e la sua risurrezione, qualcuno ne parlò all’imperatore di Roma, Tiberio, uomo diplomatico e molto attento agli avvenimenti. Egli ricevette una buona impressione riguardo ai Cristiani, seguaci del crocifisso risorto, in particolare deve averlo interessato il fatto che essi annunciavano un Messia religioso e pacifico,[153] cosicché potevano stemperare il messianismo politico della religione ebraica.

Nell’anno 36 Pilato venne inviato a Roma da Vitellio,[154] governatore di Siria-Palestina su richiesta di Tiberio, perché rendesse conto all’imperatore del suo comportamento con i Samaritani.

Vitellio, intanto, mandò il suo amico Marcello ad amministrare la Giudea, poi entrò a Gerusalemme e depose il sommo sacerdote Giuseppe, soprannominato Caifa,[155] che aveva spinto Pilato a condannare Gesù alla morte di croce, e lo sostituì con Gionata, figlio di Anna (Anano).

In questo periodo Tiberio fece praticamente perdere il conto di tre anni di storia. Infatti nominò i consoli nell’anno 34 e li lasciò in carica fino alla primavera del 36; da qui al 40 li nominò soltanto due volte. In seguito gli storici contarono gli anni consolari, prestando minore attenzione a quelli dalla fondazione di Roma. Di conseguenza il regno stesso di Tiberio risulta di 22 anni e 8 mesi, invece di 25 e 8 mesi.

Per riportare le datazioni alla realtà storica, d’ora in poi gli avvenimenti sono spostati avanti di tre anni rispetto alla cronologia tradizionale.

Dall’inizio del pontificato di Gionata, ossia dal 36 fino al 40,[156] la comunità di cristiani proveniente da Gamla[157] che viveva a Gerusalemme, fuggì «nel deserto, dove ha un posto preparato da Dio», cioè a Gamla stessa, per «milleduecentosessanta giorni». Fu in seguito al martirio di Stefano e per il fatto di aver preparato Giovanni evangelista, come un figlio proprio, ad assumere autorità nel «regno di Dio» che stava cominciando a manifestarsi nel mondo. Questo non era gradito al «drago», forse un personaggio di nome Nicola[158] con il suo seguito di discepoli, usciti dalle stesse comunità di ebrei cristiani.[159]

Tiberio, come ci riferiscono Tertulliano e altri Padri, nell’anno 35 presentò al senato di Roma una relazione a voce,[160] potendo riferire solo quella, così come gli era pervenuta dalla Palestina, sui fatti che avevano rivelato la divinità di Gesù Cristo, per ottenere che egli fosse riconosciuto come un dio e il Cristianesimo come “religione lecita”. Il Senato aveva il potere di riconoscere o negare la divinità di nuovi dei cosicché, non avendo prove concrete respinse la richiesta di Tiberio. L’Imperatore, però, persistette nella sua idea e chiese alla stessa persona che lo aveva informato sui Cristiani di fornirgli qualche prova più concreta della divinità di Gesù Cristo.

Chi aveva fatto giungere alle orecchie di Tiberio informazioni tanto interessanti da provocare questi suoi interventi?

 

Il documento di Luca a Tiberio, tramite Teofilo

 

Si sa che Luca inizia il Vangelo spiegando brevemente il lavoro che ha compito, ma lo fa con parole molto difficili da decifrare, come in un enigma. Infatti il Prologo di Luca non ha riferimenti ad altri passi, non ha un senso chiaro finché ogni parola non ha acquistato il significato voluto dall’autore. Tuttavia è rivolto a un personaggio importante, di nome Teofilo,[161] e questo potrebbe essere un riferimento storico.

Allora mi sono dedicato a tradurre dal greco questo passo di Luca, tentando e ritentando fino a trovare un senso logico per tutte le parole.[162] Solo a quel punto ha rivelato notizie storiche preziose.

Ecco come Luca si indirizza a Teofilo:

«Poiché molti hanno appunto incominciato a strutturare un racconto ufficiale riguardante gli avvenimenti che si sono conclusi tra noi, come ci hanno concesso coloro che dall’inizio (ne) sono stati testimoni diretti e incaricati della relazione, anch’io, dopo aver acquisito ogni cosa da cima (a fondo) con esattezza, ho deciso di scrivere ordinatamente a te, eccellentissimo Teòfilo, perché tu veda la documentazione concernente le relazioni che hai ricevuto a voce».

I termini tecnici usati confermano che Luca era un pubblico ufficiale. Teofilo e Luca erano addentro alle cose del potere, sia ebraico che romano.

La traduzione, così effettuata, è letterale e coerente, non ipotetica, anche se certamente potrà essere migliorata.

Questo è un pezzo di elevata prosa giurisprudenziale, che ci fa capire in quale misura i politici si fondassero sulla conoscenza diretta dei fatti.

Notiamo subito che i fatti si erano conclusi «tra noi», ossia dove erano presenti insieme Luca e Teofilo. Questi non aveva certamente bisogno che Luca glieli facesse conoscere per iscritto, perciò Teofilo è soltanto un intermediario presso qualcuno più potente di lui. È lui il personaggio che aveva informato l’imperatore Tiberio. A sua volta era stato informato a Gerusalemme dai due evangelisti Luca e Giovanni, man mano che i fatti accadevano. Ecco, dunque, chi certificò anche le testimonianze di Giovanni.

Ma chi era quest’uomo?

Luca ci lascia capire di essere inserito in un gruppo di persone che, a Gerusalemme, sono dedite a questioni giuridiche e si occupano di atti scritti. Lo storico Flavio Giuseppe, in Antichità Giudaiche, ricorda il sacerdote fratello di Gionata e figlio di Anna, di nome Teofilo, che assurse il sommo sacerdozio dopo la morte di Tiberio, dall’anno 40 al 44[163] mentre era imperatore Gaio Cesare, detto Caligola.

Come vedremo in seguito, fu il legato di Tiberio, Vitellio, a elevarlo e tale carica. Teofilo è un nome greco, perciò nella sua famiglia si parlava anche la lingua greca. Possedendo questa preparazione internazionale, aveva la possibilità di frequentare gli ambienti di Roma, e qui aveva acquistato delle benemerenze. Ha potuto, all’occorrenza, essere un buon avvocato degli ebrei, e poi dei Cristiani, presso i Romani.

Teofilo è chiamato «eccellentissimo» perché persona che poteva rivestire appunto l’autorità di sommo sacerdote, come già avveniva per suo fratello Gionata. Aveva un influsso anche politico esercitato in Palestina in nome di Roma. Notiamo che lo stesso titolo viene usato da Luca, negli Atti, per i procuratori in Palestina Felice e Festo. Il sacerdote Teofilo era divenuto presto favorevole a Gesù Cristo e, da Gerusalemme, aveva sostenuto il suo ministero, per interessamento di Luca.[164] Ora si trovava sempre a Gerusalemme e accoglieva la prova scritta dei fatti.

Possiamo affermare che fu proprio Teofilo a informare Tiberio, perché Luca si rivolge a lui come a un intermediario unico, in grado di fare da avvocato, ricordandogli che già aveva ricevuto «relazioni a voce» sui fatti avvenuti a Gerusalemme. Detto ciò, è naturale che Tiberio abbia chiesto a Teofilo una prova scritta, perché di questo aveva bisogno per ritentare di far approvare la legge in favore dei Cristiani. E Teofilo diede a Luca l’incarico di preparare, come prova, un documento scritto. A tale scopo, questi gli presentò il suo Vangelo, redatto in modo da manifestare sempre rispetto verso i Romani e mettere in luce la “pietas” cristiana.[165]

Luca, pubblico ufficiale, era anche stato testimone oculare di una parte della vita pubblica di Gesù.

Infatti i brani di Luca che non troviamo paralleli in Matteo (parabole, aneddoti, discorsi di Gesù) sono frutto della sua presenza agli avvenimenti. Perciò li riferisce in modo da far capire a Tiberio i motivi per cui Gesù agiva e raccontava parabole.

La maggior parte delle informazioni personali di Luca si riferisce ai luoghi intorno a Gerusalemme, in particolare alla campagna, dove si trovava anche Emmaus.[166] Aveva molte conoscenze in questi luoghi. Quanto ha scritto nei primi due capitoli del suo Vangelo è costituito da informazioni che ha raccolto presso persone che ha potuto incontrare soltanto a Gerusalemme e dintorni: Maria e altri parenti di Gesù, i conoscenti di Giovanni Battista.

Luca raccolse con l’esattezza di un funzionario legale i documenti già scritti e le testimonianze conservate a memoria e li trascrisse in ordine di tempo, per filo e per segno, senza rielaborarli. Scriveva per l’autorità giudaica e, contemporaneamente, per l’autorità pagana di Roma e il suo intento era di provare che Gesù era Dio, perché da Dio era stato «innalzato al cielo»,[167] dopo essere passato per la morte di croce, decretata dalla stessa autorità romana, e dopo essere risorto dalla morte. Voleva pure giustificare, di fronte all’autorità ebraica e romana, l’esistenza della Chiesa di Gesù Cristo in Israele.

La prova è, per l’appunto, esattamente adatta a essere presentata all’imperatore di Roma tramite un avvocato ebreo, in quel periodo preciso.

Dall’indirizzo di Luca e dalla possibilità di collegarlo al tentativo di Tiberio presso il Senato, emergono notizie precise che ci permettono di ambientare storicamente i quattro Vangeli, attraverso Teofilo di cui ci parla lo storico F. Giuseppe. Nello stesso tempo, ci permettono di scoprire quale grande opera ha svolto Teofilo in favore dei Cristiani. A partire da questo riferimento sarà possibile individuare le date in cui furono scritti i quattro Vangeli.

 

Luca fornisce il giusto punto di vista storico sui Vangeli e tutto il Nuovo Testamento

 

Esaminiamo il documento evangelico, scritto da Luca.

«La relazione» degli avvenimenti, stesa «dal principio», era il Vangelo “ebraico” di Matteo e Luca ne ha la considerazione che si deve a un libro pubblicato.

Prima di trascriverlo l’aveva tradotto in greco con l’aiuto degli scribi del Tempio. Tutti questi, a causa della loro attività quotidiana che si svolgeva tra i capi ebrei e i Romani, tra Giudei e Ellenisti, erano molto esperti nel trasporre dall’aramaico (e dall’ebraico) al greco termini ed espressioni, in modo necessariamente preciso, efficace. Quella traduzione apparve così autorevole che la usarono poi sia Matteo, quando «ricompose» il suo “Vangelo ebraico”, sia Marco. Così essi ne testimoniarono l’attendibilità. Fu pure l’unica traduzione di un testo “ebraico” a cui abbiano attinto i Sinottici, anzi essa divenne la struttura portante dei tre Vangeli. Se i sinottici sono simili è perché l’elemento di similitudine era unico e prezioso; si trattava proprio della «relazione» di Metteo in lingua “ebraica”.

Nacque così il particolare linguaggio greco che troviamo nei Vangeli. Anche Matteo era un pubblico ufficiale, e Giovanni aveva a che fare con una comunità di persone particolarmente attenta al valore della parola. Marco era in qualche modo legato al mondo giuridico di Luca.

L’evangelista Luca prese dunque il testo di Matteo, di cui rispettò perfino le omissioni editoriali,[168] e vi aggiunse, «ordinatamente», testimonianze precise di quanto aveva visto egli stesso e di ciò gli poterono raccontare altri testimoni oculari, cioè Maria, i parenti, i discepoli di Giudea.

Si mantenne aderente ai testi originali e alla parole esatte conservate «nel cuore» di chi gli riferiva i fatti.[169] Ne risultò uno stile vario, per l’aderenza alle fonti.

È da notare che Luca, dovendo presentare il suo documento all’autorità ebraica e romana e non volendo compromettere nessuno, evitò di scrivere molti nomi di persone e di luoghi ed evitò di precisare i tempi, dato che nemmeno il racconto primitivo di Matteo li precisava.

L’opera storica di Luca ci permette di leggere con semplicità il Nuovo Testamento, tutto come racconto di fatti storici concreti e senza bisogno di cercare complicati simbolismi. Così come Luca, personalità notevole, ha influito su tutta la vita della Chiesa nascente. Tutti lo conoscevano, per cui non c’era bisogno di scrivere notizie su di lui.

Ma la cosa forse più importante che ottenne Luca con la sua traduzione e con il suo documento fu di sostenere, con un racconto fissato per sempre, la Tradizione viva della Chiesa, costituendo un riferimento continuo per conoscere sempre di nuovo il Signore Gesù. Per attingere a questo tesoro ancora nella situazione di oggi, è necessario fare le nostre traduzioni dei Vangeli direttamente dal greco originario, aiutandoci con gli elementi che l’archeologia ci permette di riscoprire e con le informazioni storiche dateci dallo storico ebreo Flavio Giuseppe e dai Padri della Chiesa, da vagliare sempre tenendo come fonte sicura i Vangeli stessi.

Ma, ci possiamo chiedere: il Vangelo di Luca racconta davvero gli avvenimenti in modo così obiettivo da dare questa sicurezza? Dobbiamo infatti riuscire a fugare i dubbi che molte persone hanno sollevato, leggendo i Vangeli.

In realtà possiamo dire che basta aggiustare la traduzione e, dei molti dubbi, rimane ben poco.

Ci sono altri documenti che confermano la veridicità del racconto di Luca?

Si può rispondere che è stato possibile combinare interamente il Vangelo di Luca con quello di Giovanni, mantenendo l’ordine cronologico che hanno, poiché Luca stesso dichiara di aver mantenuto l’ordine di tempo. I dati storici forniti dall’evangelista Luca sono da considerare molto precisi, perché egli viveva nell’ambiente del Tempio e ne poteva consultare gli archivi. I dati storici forniti da Giovanni,[170] invece, sono le parole stesse pronunciate dalle persone o i momenti vissuti personalmente da Giovanni.

Ma, una volta precisato che questi primi due sono racconti storici, ecco apparire anche in quelli di Matteo e di Marco numerose informazioni storiche; ecco diventare significativi alcuni passaggi di questi Vangeli, di cui non si sospettava il valore storico. Anzi, visti con questa prospettiva, i Vangeli di Matteo e di Marco risultano completamente storici. Soltanto occorre tener presente che gli scribi di Matteo hanno dovuto cambiare al massimo il racconto, per i motivi che vedremo.

Così Luca, più o meno direttamente, dà notizia di tutti gli scritti evangelici.

I Vangeli autentici sono quattro: i tre sinottici, che si possono mettere uno accanto all’altro e confrontare passo per passo, e quello di Giovanni che scrive momenti diversi da quelli dei sinottici. Si potevano scrivere molti altri tipi di racconti,[171] ma la Chiesa ha riconosciuto quello di Giovanni che è stato steso durante i fatti, e i tre sinottici che ricalcano la relazione di cronaca stesa da Matteo.

Questa ricostruzione ci permetterà di ritrovare la freschezza storica dei racconti.

Da qui mi si è aperto man mano uno scenario storico sempre più ampio e concreto, fino a poter dire che veramente i Vangeli ci raccontano le opere e le parole di Gesù, nel modo più esatto possibile. In verità, anche se ci fosse qualcosa di inesatto, i quattro punti di vista diversi, che ci sono stati trasmessi, permettono di ritrovare la logica di ogni cosa e di verificarla.

Il racconto “ebraico” di Matteo, non perduto ma tutto trasferito in quello greco di Luca, e il racconto greco di Giovanni, sono la base storica dei quattro Vangeli.

In realtà tutte le difficoltà a considerare i Vangeli come opere storiche sono nate perché Matteo si presenta per primo, quando li vogliamo leggere, ma ebbe la necessità di abbandonare l’ordine cronologico dei fatti e dei momenti in cui Gesù espone i suoi insegnamenti, per poter pubblicare di nuovo il suo primo Vangelo. Marco lo seguì nello schema.

Però Luca afferma espressamente che c’è stata questa ricomposizione. Così egli spiega il problema sinottico e lascia lo spazio esatto per il Vangelo di Giovanni. E non ce n’eravamo accorti.

 

ANNI 40-44

 

Teofilo sommo sacerdote

 

L’imperatore Tiberio, intanto, si era isolato sempre più a Capri e il Senato non gli era favorevole. Ricevuto il documento di Luca e non potendo fare altri tentativi presso il Senato per fare approvare la legge su Gesù Cristo, ordinò a Vitellio di intervenire nuovamente a Gerusalemme.

Leggiamo quanto ci dice Flavio Giuseppe:[172]

«(Vitellio, governatore dell’imperatore Tiberio in Siria) restò qui (a Gerusalemme, nell’anno 40) per tre giorni, durante i quali depose il sommo pontefice Gionata dal suo ufficio e pose al suo posto Teofilo, fratello di Gionata.[173] Nel quarto giorno gli fu recapitata la lettera che gli annunciava la morte di Tiberio...».

Tiberio morì il 15 marzo dell’anno 40,[174] gli successe Gaio Cesare, soprannominato Caligola.

Iniziò così il periodo di «quarantadue mesi» in cui Roma ebbe potere sulla Gerusalemme santa.[175]

Anche se era venuto meno chi aveva richiesto la prova, il Vangelo di Luca non venne pubblicato, ma venne conservato come documento ufficiale, in attesa di un’occasione propizia che però non si presentò più. L’inaffidabilità di Caligola e degli altri imperatori impedì di chiedere di nuovo al Senato quel riconoscimento.

Tuttavia un sommo sacerdote concentrava in sé un notevole potere religioso e politico, esteso a tutta la Palestina. La prova, che aveva uno scopo istituzionale, ottenne un risultato notevole. Infatti, Negli Atti degli Apostoli,[176] Luca rammenta che «la Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria...», nel periodo iniziato con il sommo sacerdote Gionata e il procuratore Marcello e proseguito per tutto il pontificato di Teofilo. Anzi, Teofilo continuò a fare da avvocato, sia per i cristiani che per gli Ebrei, finché gli fu consentito, cioè fino all’inizio della persecuzione di Nerone.[177] Per opera sua, anche se vi accenna soltanto Luca, si ebbero oltre trent’anni di pace per gli Ebrei e i Cristiani, in Israele e anche fuori Palestina.

Teofilo, interessandosi dei Cristiani, dovette entrare per forza in contatto con la comunità di Gamla, che conosceva già per mezzo di Luca e Giovanni, e, mentre gli anni di Teofilo sommo sacerdote furono di pace per la Chiesa in Palestina, furono di travaglio per i Cristiani di Gamla, inseriti in una città che era anche armata contro i romani.

È chiaro che i fratelli di Gamla rimanevano nel nascondimento, protetti da Teofilo, attendendo che giungesse il tempo della “redenzione della Gerusalemme santa” e cercando di non dar fastidio ai Romani. Convertiti a Gesù Cristo, non pensavano più a liberare Gerusalemme dai Romani con le armi.

Dal 40 al 44 circa,[178] i “fratelli” di Gamla dovettero nuovamente fuggire nel deserto, perché il «drago» li accusava di non essere fedeli all’ebraismo:[179] il “drago” fu sconfessato e poi i suoi discepoli si sparsero in Asia Minore, ma la comunità di Gamla ritornò nel suo luogo.

Nello stesso tempo Giovanni dovette separarsi da Pietro,[180] benché mantenesse grande autorità,[181] perché i Romani si occuparono più da vicino delle cose del Tempio,[182] e Giovanni era “figlio” di Gamla, città ostile ai Romani.

Noi abbiamo dovuto riscoprire un po’ i luoghi e gli avvenimenti per godere del tesoro che ci hanno tramandato i testimoni.

Perciò sono tornate utili varie informazioni, geografiche, storiche, archeologiche, per ricostruire gli ambienti e le situazioni. Mentre raccoglievamo notizie storiche, appariva sempre di più il valore immenso del tesoro. Abbiamo potuto allargare l’orizzonte storico per inquadrare i Vangeli e per far emergere, con i Vangeli, la vicenda storica di Gesù. E c’è stato grande spazio per usare la fantasia nell’immaginare, ricercare e documentare quel che ha fatto Gesù nel suo ambiente e quello che hanno fatto i suoi contemporanei verso di lui. Così i Vangeli acquistano vasti orizzonti umani e brillano di più la grazia e la verità di Gesù nel mondo e nei tempi.

Tutto ciò dà il giusto rilievo al lavoro fatto dagli Evangelisti per testimoniare e conservare tutto ciò che era importante.

 

Gli scribi di Matteo riordinarono il loro tesoro

 

Esaminiamo ora il Vangelo di Matteo, come è arrivato a noi, per comprendere come si è svolta la vicenda di questo libro. Non lo possediamo più in “ebraico”, ma in greco. Allora: è una traduzione del primo Vangelo pubblicato da Matteo, o è qualcos’altro?

Se, inoltre, prestiamo fede a Luca che dice di avere scritto ordinatamente, anche il Vangelo di Matteo dovrebbe essere nello stesso ordine del suo. Invece non lo è per niente.

Luca – l’abbiamo notato – ricorda che «molti hanno incominciato a ricomporre un racconto», attingendo evidentemente al “Vangelo ebraico” di Matteo.

Infatti, se mettiamo l’uno accanto all’altro il Vangelo di Luca e quello di Matteo, avvertiamo subito un particolare curioso: sembrano animati da insistente, accanita polemica, ma, nello stesso tempo, non manifestano la benché minima espressione di rivalità.

Come si può spiegare questo? Tutto appare molto semplice, se si suppone che la continua discordanza non sia tra Matteo e Luca, ma tra due opere di Matteo stesso. Inoltre non ci fu alcuna polemica; fu soltanto l’effetto di una nuova iniziativa editoriale. Anche allora, come adesso, c’erano regole di diritto editoriale e perciò, per non ripetere il libro già pubblicato, i nuovi redattori si servirono di ingegnosi accorgimenti. Immaginiamoli intenti a raccogliere gli insegnamenti di Gesù secondo l’argomento, ad aggiungere allo scritto precedente frasi che ricordavano bene a memoria, a trovare espressioni diverse che non stravolgessero il significato delle parole di Gesù, particolari inediti dei fatti, nomi di regioni anziché di città dello stesso territorio, ecc. Tutte le variazioni furono introdotte a ragion veduta, non furono errori di traduzione o di interpretazione.[183]

Esaminiamo, ad esempio, il miracolo con cui Gesù guarisce il cieco di Gerico.[184]

Luca e Marco dicono che il cieco era “uno”, mentre secondo Matteo erano “due”. Notiamo però che i due ciechi di Matteo facevano e dicevano le stesse cose, come fossero uno solo. Dunque è stato Matteo a cambiare i particolari dei racconti, ma ha fatto in modo che il lettore potesse accorgersi della manipolazione. Vi era stato costretto, dovendo usare un’altra volta l’unico racconto di valore storico che aveva a disposizione. Il racconto in lingua “ebraica” è andato perduto, perché Luca l’aveva tradotto e inserito nel suo Vangelo, e quindi non serviva più. Ma il Vangelo di Luca ne testimonia l’esistenza e l’uso che ne fecero, conservandone il contrasto con l’attuale Vangelo di Matteo.

La «ricomposizione» ha conservato il legame al nome di Matteo, perché i «molti» avevano bisogno di un coordinatore e questi fu l’evangelista stesso.

Nel Vangelo di Matteo troviamo proprio le caratteristiche di una ricomposizione compiuta da molti; e tra i «molti» c’erano anche coloro che avevano steso fin dall’inizio il “verbale”. Lo fa intendere lo stesso Matteo[185]: «Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». E (Gesù) disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». L’elaborazione è stata fatta dagli stessi scribi che si erano costituiti il «tesoro», insieme ad altri scribi convertiti al regno dei cieli, tra cui ebrei ellenisti.

La «ricomposizione» non può essere altro che il Vangelo di Matteo, in greco, che è arrivato fino a noi.

Questo ci permette anche di sostenere che i Vangeli non sono la raccolta di tradizioni orali diverse, alquanto divergenti tra loro e inspiegabilmente indipendenti, ma opere che si completano a vicenda con sufficiente esattezza. Non solo: è anche possibile cogliere la limpidezza con cui furono scritti e che rispecchia fedelmente la figura del Maestro e l’ambiente che si creò intorno a lui.

Perché una nuova pubblicazione?

Si era durante il pontificato di Gionata e si era convinti che il periodo di pace in Palestina sarebbe durato a lungo. Molti scribi, intorno a Matteo, decisero di pubblicare un nuovo libro per trascrivere il racconto originale in greco e non più in “ebraico”, su un rotolo e non più su un codice, per renderlo adatto all’uso nelle sinagoghe e nella scuola tra gli ebrei cristiani, in Palestina e fuori.

Se ne occuparono in «molti» perché era un lavoro importantissimo. Ciò che aveva steso Matteo aveva bisogno di maggior ordine, perché era «la relazione» dei fatti e dei discorsi di Gesù, scritta momento per momento e perciò poco “ordinata”.

Gli scribi che erano stati alla scuola di Gesù non si accontentarono degli appunti scritti, ma vollero aggiungere altre cose che ricordavano con precisione e quanto avevano compreso, per insegnare ad altri come essere cristiani ed essere Chiesa.

Trassero dal «tesoro» «cose antiche», ossia collegamenti alle profezie dell’Antico Testamento, in aggiunta a quelli fatti da Gesù, come appaiono nel Vangelo di Luca, e «cose nuove», riunendo tutto l’insegnamento autentico di Gesù in cinque grandi discorsi, alternati alla narrazione sommaria degli avvenimenti, e le riflessioni della Chiesa fino a quel momento, molto poche ancora rispetto alle istruzioni che Gesù stesso aveva impartito. Così hanno potuto cambiare la fisionomia del racconto, senza stravolgerlo.

Essi ne avevano pieno diritto e piena competenza, perché autorizzati dal Maestro, dopo averlo seguito fin dall’inizio. Potevano farlo tranquillamente, senza tradire la verità storica, perché la gente ricordava ancora bene tutti i fatti e perché era in circolazione il primo Vangelo di Matteo, che raccontava i fatti in ordine. Il nuovo libro poteva servire da commento al primo.

Il tutto venne scritto già in greco, lingua internazionale nell’Impero Romano, usando il testo che Luca aveva tradotto dal “Vangelo ebraico di Matteo”. Però, dovendo preparare un testo da far leggere anche ai bambini a scuola,[186] modificarono un po’ il greco della traduzione di Luca, per renderlo più facile.

Il Vangelo di Matteo in lingua greca, che ci è giunto, è dunque originale e appare grandioso proprio per la libertà con cui è stato utilizzato e completato il racconto precedente.

L’opera intrapresa da «molti», di cui parla Luca all’inizio del suo Vangelo, non era dunque il tentativo di comporre un racconto, ma un’opera precisa, che abbiamo davanti a noi, la «ricomposizione» eseguita da «molti» che troviamo nel Vangelo di Matteo. È l’unico riordinamento compiuto, sotto la supervisione di Matteo, ed è stato trasmesso fino a noi. È anche il primo esempio di interpretazione delle parole e opere del Cristo, molto autorevole perché effettuata dai testimoni autentici con il consenso di Gesù stesso. Gli scribi di Matteo non si rivolgevano a un pubblico indefinito, ma innanzitutto alle autorità giudaiche, ai maestri della Legge, mentre la vita degli Ebrei continuava normalmente e non c’erano stati gli sconvolgimenti della rivolta giudaica.

Luca infatti scriveva intorno al 40. L’opera di ricomposizione dei «molti» era incominciata, ma non ancora finita. E c’è un motivo particolare per dire che il Vangelo di Matteo era pronto nel 43, e due o tre anni, per un simile lavoro di rielaborazione, sono un tempo ragionevole. Il riferimento è abbastanza preciso:[187] «Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda -, allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti...». Qui non sono riportate le parole precise di Gesù, ma le riflessioni degli scribi.[188] Infatti Luca, che riferisce le parole di Gesù con precisione, non fa cenno alla profezia di Daniele.

Essi attirano l’attenzione di chi legge sulla profezia di Daniele a causa della situazione politica di quel momento. Nel 43, ancora durante il pontificato di Teofilo, Gaio Cesare (Caligola) «infatti inviò Petronio con un esercito a Gerusalemme per collocarvi le sue statue nel Tempio, dandogli ordine, se i Giudei non le avessero volute introdurre, di uccidere chi avesse opposto resistenza e di ridurre in schiavitù tutto il resto della popolazione».[189] Si susseguirono petizioni dei Giudei a Petronio ed egli, insieme ad Agrippa I, fece in modo che la cosa andasse per le lunghe, finché Caligola venne assassinato. In quei mesi si temette una catastrofe in Palestina. Si potevano temere distruzione e morte a Gerusalemme.

Quando invece scriveva Marco, circa quattro anni dopo, ormai questa situazione precisa era finita, ma si poteva temere qualcosa di simile per il futuro.[190] Ecco perché Marco sfuma i riferimenti di luogo e di tempo: «Quando vedrete l’abominio della desolazione stare là dove non conviene...».[191] L’avvenimento ha segnato più di un libro del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse di Giovanni.

Il Vangelo di Matteo è il primo a essere conosciuto e usato nella Chiesa, forse perché ne erano state fatte varie copie per le diverse scuole.

Con questa spiegazione, tutti e quattro i Vangeli appaiono rigorosi e, al contrario, senza una spiegazione simile gli evangelisti appaiono molto confusi.

 

ANNI 44-47

 

Marco fece la sintesi ordinata dei Vangeli precedenti

 

Alla morte del diacono Stefano, molti cristiani si erano già dispersi fuori della Palestina e avevano diffuso la buona notizia di Gesù ma, nel periodo di pace di Gionata e Teofilo, gli Apostoli si dedicarono intensamente alla missione in Giudea, in Samaria, in Galilea e fuori Palestina.

Simon Pietro venne chiamato dal centurione romano Cornelio, perché lo istruisse sulla dottrina cristiana. Cornelio si fece battezzare con la sua famiglia. Era già cominciata la missione ai pagani e Pietro aveva, più che mai, degli amici tra i Romani. Ma ne aveva anche prima, perché era un pescatore abbastanza ricco, che aveva una casa di tipo romano a Cafarnao, con «tegole»[192] e, certamente, per i suoi affari doveva fare i conti con gli amministratori romani, in particolare con Matteo, l’esattore delle tasse per Roma. Se non avesse reso suoi amici alcuni di loro, il suo lavoro non sarebbe stato facile. D’altra parte, la presenza di amici dei Romani, o di loro dipendenti, tra i discepoli di Gesù è uno dei motivi per cui Tiberio conobbe e apprezzò il Cristianesimo.

Così la pace per la Chiesa durò alcuni anni, anche dopo che Erode Agrippa I, ottenuto il regno di Giudea, ebbe deposto Teofilo per sostituirlo con Simone Càntera. Leggiamo ancora quanto riferisce F. Giuseppe:[193]

«(Si era nell’anno 45, il regno di Claudio era appena iniziato e) Agrippa (Erode Agrippa I), compiuti pienamente i suoi doveri verso Dio, rimosse Teofilo, figlio di Anano (= Anna), da sommo pontefice e nel suo alto ufficio mise Simone, figlio di Boeto, soprannominato Càntera». «La figlia di Simone era sposata al re Erode». Erode Agrippa era propenso a fare ciò che era gradito ai Giudei,[194] e probabilmente anche questa deposizione piaceva a loro, che non volevano essere governati da un amico dei cristiani o cristiano egli stesso.

Quando, nel 44, Teofilo venne deposto, si sentiva poco sicuro a Gerusalemme, e probabilmente si recò a Roma, dalla quale poteva andare e venire, perché godeva del sostegno di Vitellio, che fu eletto console in uno di quegli anni. Con la presenza e attività di Teofilo, anche quando non era più sommo sacerdote, si spiega il fatto che Roma sia rimasta favorevole ai Cristiani per più di trent’anni, quelli che passarono da quando il sacerdote fornì le prime informazioni a Tiberio fino a quando Luca gli presentò gli Atti degli Apostoli, nel 66 circa.[195] Le leggi romane non ammettevano religioni che adorassero divinità non riconosciute dal Senato e, senza un buon avvocato a Roma, i cristiani sarebbero stati subito perseguitati. Fu lui a “trattenere il mistero dell’iniquità”[196] per quei trent’anni, sia a Roma che in Palestina. Finché Nerone, nel 67, fu preso da un pazzesco disegno che si concluse con la persecuzione dei Cristiani.

È possibile che proprio Teofilo abbia invitato Pietro ad andare per la prima volta a Roma nel 45, insieme al giovane Marco. Marco gli faceva da interprete dal greco e dall’aramaico in latino, perché Pietro sapeva parlare e leggere un po’ il greco,[197] usato nel commercio e da una parte della gente in Galilea, un greco che ricalcava la parlata aramaica.

A Roma i cavalieri e i cesariani che ascoltavano Pietro chiesero a Marco di scrivere i fatti che l’Apostolo andava annunciando. Marco e Pietro tornarono dunque a Gerusalemme, dove Marco poteva avvalersi di tutto ciò che avevano scritto Matteo, Luca e Giovanni, per comporre un nuovo Vangelo. È più facile capire il Vangelo di Marco, se ammettiamo che egli l’abbia scritto dopo gli altri tre.

Non è possibile che Luca e Matteo abbiano tratto da Marco racconti più complessi e lacunosi, ognuno per conto proprio. Infatti si può ricavare un riassunto più semplice da due racconti complessi, ma difficilmente, dopo un racconto semplice e lineare, si costruiscono due racconti complessi e molto meno lineari. Sarebbero più difficili da leggere, meno allettanti. D’altronde proprio i racconti più immediati risultano meno ordinati.

Consideriamo di nuovo il problema delle divergenze tra Matteo e Luca. Marco sembra risolvere la “polemica” tra i due Vangeli, eliminando tutto ciò che appariva in contrapposizione; ma nemmeno nel suo linguaggio c’è qualcosa che manifesti davvero una divergenza tra Luca e Matteo e una sua operazione di “rappacificazione”. La verità è che egli parte dagli altri Vangeli: riassume, completa, precisa e, quando occorre, rimette a posto ciò che Matteo ha cambiato per necessità.

Inoltre possiamo ammettere che Marco abbia seguito l’ordine del racconto di Matteo che, pur non essendo completo come quello di Luca, semplificava i fatti, e che lo abbia reso ancor più lineare e scorrevole. Possiamo immaginare che si sia proposto di mettere insieme quanto diceva Luca e quanto diceva Matteo, scegliendo dell’uno e dell’altro le parti che potevano rendere più completo e più semplice il racconto. Infatti sembra proprio che Marco commenti gli altri Vangeli, spiegando ciò che non appare chiaro, ed è attento a colmarne le lacune.

Il Vangelo di Marco, se lo leggiamo da solo o come il primo scritto, appare come un racconto ordinato, semplice, immediato, vivo. Ma non particolarmente colto: troppo semplice, addirittura ingenuo. Se, invece inseguiamo l’idea intuita e lo leggiamo dopo gli altri, come l’ultimo scritto, si dimostra un ottimo “cappello” a tutta l’opera degli evangelisti. Dopo aver letto il racconto storico, nei Vangeli di Luca e Giovanni combinati, e il “riordinamento” di Matteo, ci rendiamo conto dell’ampia cultura e completezza di informazioni di Marco e della sua attenzione a chiarire quanto gli altri tre evangelisti non hanno chiarito, per fedeltà all’originale o per esigenze particolari. La prima frase di Marco è solenne: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio».

Se, quando Marco scriveva, c’erano già gli altri Vangeli, si capisce come lui da solo, e non con l’aiuto di “molti” come Matteo, abbia potuto raccogliere molto materiale, come appare dall’analisi del suo Vangelo. In realtà si trattava soltanto del materiale abbondante fornito dai tre Vangeli, e delle testimonianze dirette di Pietro e di altri cristiani che conosceva bene, provenienti anche da fuori Palestina.

Il modo stesso di scrivere di Marco dipende, in misure diverse, da Matteo, Luca e Giovanni.[198]

Marco, ad esempio, nel racconto della cacciata dei mercanti dal Tempio, riunisce ciò che dicono Luca, Matteo e Giovanni,[199] per fornire maggiori dettagli dell’azione di Gesù. Già Matteo aveva copiato qualcosa da Giovanni, per cambiare il più possibile il racconto originale, creando però confusione storica. Tutto questo ha fatto credere che Gesù avesse scacciato una sola volta i mercanti dal Tempio e che Giovanni avesse spostato l’episodio all’inizio della vita pubblica.

Per quanto riguarda i discorsi che Matteo aveva “riordinato”, questi non erano adatti alla predicazione ai Romani, che non li avrebbero capiti, perciò Marco li ha tralasciati, ponendo qua e là solo dei titoli[200] che aiutavano Pietro e i suoi collaboratori a ricordare ciò che dovevano raccontare agli uditori. Marco doveva infatti comporre, con le testimonianze di Pietro, un libretto breve, facile da portare in giro. Un libretto che doveva servire a Pietro come pro-memoria nella sua predicazione a Roma, lasciando alla viva voce dell’Apostolo e dei suoi collaboratori il compito di annunciare i discorsi di Gesù. Mentre Marco scriveva, ricalcando lo schema del Vangelo di Matteo e il suo testo greco popolare, Pietro gli raccontava i fatti di cui era stato testimone e gli suggeriva precisazioni sugli avvenimenti e sui luoghi, nel proprio linguaggio aramaico-greco, e l’evangelista trascriveva fedelmente[201] in modo semplice e ordinato, cercando di precisare tutto ciò che poteva apparire poco chiaro negli altri Vangeli, per prevenire la curiosità dei romani istruiti.

Ma l’evangelista, per poter copiare dagli altri Vangeli, doveva averli sotto gli occhi, quando Luca e Giovanni non li avevano ancora pubblicati, e avere il consenso continuo degli autori.

Ripercorrendo gli avvenimenti narrati negli Atti degli Apostoli, non è possibile che abbia scritto a Roma, dove non risulta che si siano mai trovati insieme i quattro evangelisti e Pietro. Dopo che Matteo ebbe pubblicato il suo Vangelo, vari indizi segnalano Pietro a Roma nel 45. Gli evangelisti si trovarono insieme a Gerusalemme, per un po’ di tempo, prima del 47.[202] In quell’anno Pietro tornò a Roma[203] e Marco seguì Paolo ad Antiochia insieme a Luca. Si sono ritrovati a Gerusalemme nel 52 per il Concilio, ma per un tempo non sufficiente a Marco per scrivere il Vangelo. Più tardi Marco, Luca, Pietro e Paolo si sono ritrovati a Roma, ma intanto il Vangelo di Giovanni era nelle mani di “fratelli” di Gamla e dell’evangelista stesso, in Galilea, a Gerusalemme o a Efeso. Marco ha potuto scrivere così soltanto tra il 45 e il 47.

 

In quale lingua erano, all’inizio, i quattro Vangeli?

 

Molti in Palestina sapevano parlare in greco all’occorrenza. Molti lo sapevano pure scrivere.

Giovanni scrisse subito in greco; Matteo invece, poiché all’inizio pensava che Gesù fosse venuto soltanto per gli Ebrei, scrisse in “ebraico”.

Ma non c’è da meravigliarsi che i quattro Vangeli giunti a noi, tutti e quattro indirizzati a lettori internazionali, siano stati scritti in greco all’origine. Sono libri preparati per comunicare al mondo la Buona Notizia: internazionali ma scritti dai testimoni oculari o da persone che consultavano continuamente i testimoni. Tutte le persone che li hanno scritti in greco l’hanno fatto a Gerusalemme, quando vi si trovavano tutti i testimoni

Luca ha avuto una parte predominante nella stesura dei Vangeli. La versione greca del suo Vangelo rivela informazioni molto coerenti tra loro, che permettono infiniti approfondimenti. La versione latina invece mostra varie incoerenze perché il significato di questo Vangelo, nel suo insieme, non è stato capito dal traduttore. Ciò conferma che Luca ha scritto in greco tutto il Vangelo, non solo l’introduzione.

Proprio Luca effettuò l’unica traduzione dall’aramaico, sotto gli occhi del primo autore, Matteo.

Il greco usato era quello corrente negli ambienti in cui forno scritti i Vangeli. Non si trattava di ambienti isolati dalla realtà sociale di allora, perché ci furono subito cristiani di lingua greca accanto a cristiani di lingua ebraica, in contatto continuo tra loro.[204]

Chi avesse la possibilità di leggere i Vangeli in greco, si renderà conto immediatamente che gli scribi di Matteo hanno lavorato sulla traduzione, fedele e raffinata, di Luca, e che Marco ha lavorato sui testi di Luca e di Matteo. Infatti anche il testo di Marco appare scritto subito in greco, perché presenta una rielaborazione sintetica dei testi di Luca, di Matteo e anche di Giovanni, per quanto riguarda il racconto storico; ma fissa le testimonianze di Pietro con il linguaggio vivo dell’apostolo, un greco aderente all’aramaico. Ricordiamo che Simon Pietro aveva il fratello Andrea con un nome greco, e ciò significa che essi avevano familiarità con la lingua greca.

I Vangeli di Matteo e Marco dipendono, con una certa libertà, dal “Vangelo ebraico di Matteo”, nella traduzione greca di Luca. È facile poi notare che ambedue hanno parti, che non dipendono dalla traduzione di Luca, sparse in tutto il testo, copiate esattamente in greco da un Vangelo all’altro. Quindi almeno quelle parti sono state scritte originariamente in greco. Poiché ognuno dei due Vangeli è notevolmente organico e le parti copiate sono state assunte entro due stili letterari diversi, le uguaglianze non possono dipendere dalla traduzione in greco da parte di una sola persona. Infatti, se una persona sola avesse continuamente confrontato i due Vangeli in “ebraico” per tradurli, avrebbe ottenuto due stili disorganici ma simili; ma poiché gli stili sono diversi, dovrebbero essere state due persone a tradurre e avrebbero composto in modo completamente diverso le frasi non copiate da Luca. Semplicemente ambedue sono stati scritti subito in greco da due persone: prima quello di Matteo, poi Marco ha copiato un po’ da Matteo. Matteo a sua volta aveva copiato, più o meno liberamente, da Giovanni alcune frasi in greco. Due esempi sono i racconti della traversata del lago, dopo il miracolo dei pani, e dell’unzione a Betania.[205]

Come abbiamo visto, è evidente che Luca ha scritto in greco e ha qualche frase, qualche aspetto in comune anche con Giovanni. Ad esempio la frase: «chinatosi vide le bende...» è copiata, in greco, da Giovanni,[206] nonostante l’impegno di Luca a non ripetere ciò che Giovanni ha già scritto. Anzi, questa mezza frase copiata in greco da Giovanni, messa lì per necessità, per esattezza storica, verso la fine del Vangelo, cioè nella parte scritta per ultima, tradisce il continuo impegno di Luca nei riguardi di Giovanni, ripetendo lo stesso impegno di Matteo quando scriveva la «relazione» in “ebraico”.

Nel lavoro di traduzione Luca ha potuto confrontarsi con Giovanni, perché aveva in comune con lui la cultura greca ed era vicino a lui a Gerusalemme.

Le somiglianze fanno pensare che Luca, gli autori del Matteo greco, Marco e Giovanni avessero in comune molte cose; che abbiano lavorato insieme, appunto a Gerusalemme negli anni dal 29 al 48. Il linguaggio di Luca si distingue da quello degli altri soltanto per essere quello di un giurista.

Tra tanti racconti storici di quei tempi, ricchi di vita ma anche poveri di umanità e senza speranza di salvezza, ecco quattro racconti altrettanto concreti e avveduti, ma pieni di umanità e di salvezza per tutto il mondo.

Gesù Cristo ha chiesto fede in lui e impegno perché, se leggiamo altre storie scritte prima di lui o fuori dal suo influsso, ci rendiamo conto di quanto la situazione nel mondo fosse diversa da ciò che portava lui.

Benché la Creazione sia rimasta sempre buona e benché gli uomini, in fondo, abbiano sempre desiderato il bene, quanta insensibilità umana, quante falsità, quanta morte e distruzione ci raccontano gli storici! In ciò vediamo quello che ha provocato, e provoca tuttora, il diavolo.

 

Il racconto storico di Luca e Giovanni

 

Come leggere i Vangeli?

 

Sono convinto che la storia ricostruita fin qui renda più semplice la lettura dei Vangeli.

Non ci sono più misteriose vicende dei quattro libri da investigare. E appaiono chiari i fatti che essi raccontano, pur essendo fatti che contengono un mistero di luce, vita e immortalità.

Il protagonista dei racconti evangelici è certamente straordinario; è un uomo autentico e contemporaneamente Figlio di Dio. Ma la storia di Gesù non è misteriosa: le sue parole e le azioni sono limpide e concrete, parole e azioni storiche del Figlio di Dio compiute in luoghi precisi.

In ogni senso, Dio ha fatto grandi cose per noi in quei trentatré anni.

Chi scrisse i Vangeli lo fece perché gli avvenimenti della vita di Gesù avevano una molteplice importanza. Conoscere i fatti permetteva di credere in Gesù Cristo e trovare la vita vera; gli insegnamenti del divin Maestro erano un tesoro; parole e opere di Gesù erano la base per la missione alle Genti e per offrire una nuova testimonianza alla fede degli Ebrei; la personalità straordinaria di Cristo, fondatore della Chiesa, conferiva dignità alla Chiesa stessa di fronte ad autorità ebraiche e mondiali di allora.

Non si può fare un riassunto dei Vangeli. Quel che è scritto è scritto. Ora, quando si legge un Vangelo, non si dovrebbero mai dimenticare gli altri tre, occorrerebbe molta attenzione, memoria, intelligenza, insieme a molta umiltà. Tutto questo è impossibile soprattutto ai bambini, che invece sono i prediletti di Gesù. Ma c’è un modo di accostare i Vangeli che permette di leggerli con calma, un po’ alla volta, e senza perdere l’unità dei fatti storici, senza sminuire la verità della persona e dell’insegnamento di Gesù.

 

È più facile partendo da Luca e Giovanni

 

La Chiesa ci dice che gli evangelisti hanno scritto «senza commettere alcun errore».

Innanzitutto abbiamo scoperto che il racconto storico ci è stato trasmesso nel modo più preciso da Luca e Giovanni. Infatti ciascuno a modo proprio certifica che gli avvenimenti sono stati raccontati per iscritto, fedelmente e fin dall’inizio. E ciascuno dei due esige che lo si consideri storicamente affidabile.

In realtà i Vangeli di Luca e di Giovanni sono quasi completamente diversi tra loro; potrebbe sembrare che ciascuno dei due evangelisti avesse composto il racconto a modo suo, liberamente, per proprie esigenze.

Però i fatti sono raccontati in modo sobrio, testimoniati quanto basta, senza insistere nel dire che raccontano la verità. Ed è possibile combinare tra loro completamente i due racconti, mantenendo l’ordine esatto dei fatti presentato da ciascuno, in modo tale da ottenere un racconto molto ricco di particolari. Ciò aumenta la loro attendibilità storica.

Il risultato che si ottiene combinandoli fornisce poi molte indicazioni per risolvere gli altri problemi storici che i Vangeli, nel loro insieme, fanno sorgere. Ad esempio, è stato possibile collegare con precisione i fatti narrati da Luca e Giovanni utilizzando dati forniti da Matteo e Marco. Perciò anche questi, sebbene meno ordinati cronologicamente, risultano pienamente storici.

Dunque possiamo leggere, come un normale racconto storico, il Vangelo di Luca e quello di Giovanni, sia combinati che separati. Anzi, dopo esserci accorti che raccontano la verità storica, diventano molto realistici, sembra che parlino di avvenimenti accaduti ai nostri giorni, purché traduciamo i testi in modo fedele e un po’ scorrevole.

Ma, a partire da questi due Vangeli, troviamo il punto di vista, la prospettiva che rimette tutto a posto, permettendoci di inquadrare storicamente anche quelli di Matteo e Marco e, poi, tutto il Nuovo Testamento.

Scopriamo infatti che nemmeno Matteo e Marco hanno commesso errori, o hanno deformato la verità storica.

Matteo, indubbiamente, ha cambiato varie cose, rispetto a ciò che leggiamo in Luca ed era contenuto nel “Matteo ebraico”. Le ha cambiate a ragion veduta e non per errore; e possiamo riconoscere ogni singola ragione, molto pratica, per cui lo ha fatto. Si è permesso addirittura delle “variazioni sul tema” senza preoccuparsene, perché sui fatti, che ben si conoscono come veri, si può ragionare senza essere troppo pignoli.

Nulla, comunque, è stato lasciato al caso e non è andato perduto niente di ciò che era stato scritto da Matteo e Giovanni durante i fatti, tanto che anche Marco non ha trovato di meglio che il racconto di Matteo, come base per la sua sintesi ordinata.

Ogni evangelista ha tenuto presente il lavoro degli altri, per darci tutte le informazioni necessarie, ma nessuno dei quattro ha voluto scrivere tutto.

 

Così, mentre leggiamo, non dobbiamo fare supposizioni su come siano successi davvero i fatti, possiamo anzi approfondire i fatti e capire sempre di più che cosa intendeva dire e fare Gesù Cristo.

 

La Madonna a Fatima ha invitato a riscoprire le testimonianze storiche dei Vangeli

 

I fatti sono avvenuti venti secoli fa. Quelli sono i momenti in cui Dio è intervenuto nel mondo, sono completi in se stessi, non c’è bisogno che si ripetano storicamente né che si moltiplichino. Quei fatti coinvolgono le persone di ogni tempo, anche noi, oggi. Per ciascuna persona che ha intravisto Gesù Cristo c’è una vocazione, accesa da quei fatti.

Tuttavia il Cielo è intervenuto con sollecitudine anche nel nostro tempo, perché la Madonna con il segreto di Fatima ha mostrato che è nostro dovere riscoprire con semplicità le testimonianze di chi ha visto i fatti e li ha vissuti. Si devono raccogliere le testimonianze scritte, suggellate con «il sangue dei martiri», perché chiunque «si avvicina a Dio» sia «irrigato», cioè rinfrancato. Si devono ripresentare al mondo, perché possano essere vissute di nuovo ogni giorno.

È realistico che Dio voglia sostenere oggi la fede attraverso Maria Vergine, madre di Gesù. Lei, risorta, rinnova oggi, con alcune apparizioni e alcuni miracoli, la memoria di quei fatti. Ma non possiamo pensare che Maria appaia sempre di più e lasci segni sempre più straordinari. Che cosa lascerebbe, in tal caso, nel mondo? Le sue apparizioni servirebbero soltanto a riacutizzare la nostra nostalgia per i fatti della vita di Gesù, a far sorgere tristezze e malinconie, se non le accogliessimo come aiuto e come stimolo a riscoprire tutta la concretezza di quei fatti storici.

Certamente non possiamo pretendere che tutti credano a quei fatti. La fede si fonda su di essi, ma nasce in una persona soltanto se Dio la dona. Infatti nemmeno tutti quelli che vedevano e ascoltavano direttamente Gesù Cristo credettero.

Tuttavia non è neppure umano cercare di convincere chi non crede senza la ragione dei fatti, come è assai difficile evangelizzare di nuovo senza riscoprire la storicità di Gesù, delle sue opere e parole.

E i fatti sono chiari, sono conservati con cura e semplicità storica, tanto che se ne possono scorgere anche i retroscena. Chi è disposto a credere viene rassicurato fino in fondo dalla storia.

 

La validità storica dei Vangeli

 

Le considerazioni fin qui esposte offrono al problema storico dell’origine dei Vangeli una soluzione che appare sempre più consistente e semplice, man mano si avanza nella ricerca. Permette di capire come sono legati tra loro tutti e quattro i libri e di leggerli tutti, completamente, come documenti storici. Tutto ciò che la Chiesa ha sempre affermato con certezza, senza che fosse chiaro il valore storico dei Vangeli, viene confermato da questa umile ricerca. Anzi lo si può comprendere in modo più pieno e si trovano indicazioni più pratiche e semplici per compiere le opere della fede.

Chi legge questi ragionamenti sui Vangeli potrà avanzare infinite ragioni per metterli in dubbio, ma una cosa è realmente possibile: leggere il racconto ordinato della vita di Gesù, unendo i Vangeli di Luca e Giovanni, e poi leggere in modo storico gli altri due Vangeli.

Riassumiamo gli elementi che concorrono a garantire la storicità di Giovanni e Luca. Innanzitutto la possibilità di trovare la traduzione pienamente logica del Prologo di Luca; poi le certificazioni di Giovanni e di Luca, che rendono i loro Vangeli documenti storici fedeli. La conferma si ottiene combinando gli stessi Vangeli storici in ordine di tempo, perché si ottiene un racconto che non aumenta i problemi, anzi li dissolve: ravviva il racconto, lo amplia, lo rende articolato. Un’ulteriore conferma è la possibilità di combinare le date dei Vangeli di Luca e Giovanni con quelle delle opere di Flavio Giuseppe. Questo permette di trarre profitto anche da una scoperta archeologica: la recente identificazione di Gamla con le rovine su un monte a nord est del Lago di Galilea e il ritrovamento in essa di una moneta; infatti vi si può scorgere un collegamento con il Vangelo di Giovanni e con l’Apocalisse.

Tutto ciò sembra un apprezzabile risultato della ricerca. Insomma, non siamo del tutto fuori strada.

 

Se non si riconoscono i fatti storici…

 

C’è stato più di una volta chi, approfittando dei dubbi sulla verità storica dei Vangeli, ha dubitato della verità di Gesù e poi ha dato origine a diversi fenomeni devastanti. Sono nate divisioni nella Chiesa, nuove religioni che si ritengono più vere di quella fondata da Gesù Cristo. È apparso e ha acquistato credito un ateismo che non è neppure razionale. Si è creduto di poter sostituire la salvezza di Gesù Cristo con la psicologia, che considera i fenomeni psichici ma non ha il compito di considerare l’anima, perciò non può aiutare fino in fondo la persona. Ci si è illusi di poter costruire un progresso indipendente dalla verità e da Dio.

Mancando la fiducia per i fatti evangelici, si è arrivati talvolta a dubitare della valore stesso dei fatti e sono sorte filosofie (= ricerche di sapienza umana) che non guardano la realtà. Queste poi hanno spesso cercato di “salvare la fede”, come se il Salvatore non fosse Cristo, che supera con semplicità ogni sapienza umana e dà sicurezza divina.

 

I Vangeli, patrimonio universale

 

Anche oggi chiunque, non solo chi ha fede in Gesù, può leggere i Vangeli e può incontrare realmente Lui, attraverso l’opera degli evangelisti, conservata fino ai nostri giorni meglio di ogni altra opera antica.

Il Vangelo di Luca e quello di Giovanni, certificano le parole e le opere di Gesù, entro gli avvenimenti storici. Ci permettono di conoscere i fatti in modo limpido, e questa limpidezza non si perde col tempo. Anzi potrà crescere, perché fondata su una testimonianza solida.

Certificano cose che nessuna filosofia o scienza umana può raggiungere: che Dio è Trinità e ha caro il mondo, in particolare gli uomini; che la nostra vita dura in eterno dopo la morte del corpo e, subito dopo la morte, Gesù Cristo ci prepara il paradiso, oppure l’inferno se non abbiamo servito nella carità Lui, il Signore e Maestro.

I Vangeli di Matteo e Marco completano mirabilmente ciò che è certificato.

Gli avvenimenti e quello che Gesù ha donato sono alla portata di tutti, conservati intatti e molto precisi.

Per leggere i Vangeli non occorre un animo riflessivo, sensibile, entusiasta. I Vangeli, scritti in mezzo al turbine della vita complicata – sociale, economica e politica – di 2000 anni fa, tornano adatti al turbine della vita complicata di oggi. Perché Gesù Cristo nacque in quel tempo e lì portò la sua salvezza per sempre, semplificando perfino il modo di guardare la storia umana. Oggi, Gesù Cristo salva dentro le nostre situazioni complicate e non in un ambiente apposta, anzi Lui rende più semplice arrivare al fondo delle cose. Ci ha donato opere concrete, significative e, all’occorrenza, straordinarie, cui possiamo riferire tutta la nostra vita fatta di situazioni umane che, in fondo, si ripetono oggi allo stesso modo di allora.

 

Gesù è autentico Salvatore

 

Il Vangelo di salvezza non è altro che la vita di Gesù Cristo, raccontata dai Vangeli; e i Vangeli fanno parte della realtà che Gesù Cristo ha edificato: la Chiesa.

I Vangeli e tutto il Nuovo Testamento ci conservano davvero le parole e le opere di Gesù, illustrano e certificano i poteri che anche oggi la Chiesa esercita concretamente in nome di Lui, soprattutto i Sacramenti.

Cristo è vero Salvatore. Egli stesso sollecitava: «Perché non fate ciò che dico?»,[207] poiché le sue parole sono quelle del Figlio di Dio Creatore. La salvezza di Gesù si manifesta oggi al mondo attraverso le opere della sua Chiesa. La fede continua nei fatti, nella Chiesa viva, con i poteri che Gesù Cristo le ha trasmesso. La realtà della Chiesa è viva in noi quando accogliamo da Lei il Vangelo, anche leggendo privatamente i Vangeli, partecipiamo ai Sacramenti e viviamo la carità cristiana.

Nella Chiesa noi possiamo lavorare in pace di giorno e dormire tranquilli di notte, perché contro la Chiesa non prevarranno le porte degli inferi,[208] quelle che si mangiano la vita con il peccato, la tristezza, la sofferenza, la morte, l’oblio …

Perché la salvezza risplenda nel nostro tempo, occorre riscoprire la regalità che Gesù ha espresso storicamente 2000 anni fa, dalla quale sono nate la nostra fede e la Chiesa stessa.

Con le sue parole, le sue opere e i Sacramenti, Cristo rivela davvero cose che erano irrimediabilmente nascoste, incomprensibili, e a cui l’umanità spesso rinuncia. Egli le fa emergere davanti ai nostri occhi, indicando nella realtà quotidiana ciò che le manifesta, ma che noi non sapevamo vedere. Gesù mette in moto con semplici parabole la nostre capacità umane per farci scoprire e compiere ciò che non avremmo mai immaginato. Intanto stabilisce il rapporto giusto tra noi e l’universo. Così ci conferma che Egli è Figlio di Dio divenuto carne. La nostra fede in lui cresce e la salvezza cristiana si realizza già nel mondo

«Attraverso il Vangelo», contenuto storicamente nei Vangeli, Gesù storico ci ha donato anche un contatto razionale e sereno con l’aldilà, nella vita quotidiana, poiché «ha messo in luce vita e immortalità».[209]

Salva davvero situazioni per noi impossibili da salvare o risolvere. Attraverso il tesoro scritto delle sue parole e opere storiche, Egli ci dà sempre di nuovo suggerimenti divini e nello stesso tempo molto pratici. Noi, provando a fare quello che dice, esercitiamo il nostro giusto rapporto con la altre creature, con tutto l’universo.

Da questo è nata anche buona parte del progresso, perché Gesù ha rivelato la dignità della persona e le possibilità degli uomini nei confronti delle altre creature. Ogni possibilità è già contenuta, con semplicità, in ogni insegnamento di Gesù. Noi ritroviamo il posto nel progetto originario di Dio, perduto con il peccato originale

Il confronto con Gesù storico permette a ciascuno di conoscere veramente se stesso, di capire quale grande valore ha la vita in questo mondo e che cosa è davvero la libertà. Egli è talmente reale, che la meditazione sulle sue azioni e parole ci permette perfino di approfondire, senza tanto studio, l’organizzazione del nostro cervello. Rende comprensibili e razionali i nostri stati d’animo e rende possibile guidarli, li porta alla luce, mentre i vastissimi studi psicologici di oggi non arrivano mai al fondo dell’animo umano. La psicologia, quando lavora senza Gesù Cristo, mentre afferma di avere lo scopo di rendere autonomo l’individuo, in realtà funziona soltanto se ogni “individuo” dipende in tutto e continuamente dalla presenza di altri. Gesù Cristo, mentre ci comanda di avere cari gli altri come lui ha avuto cari noi, rende chi crede in lui capace di realizzarsi anche nella solitudine.

La concretezza di quei fatti è tale, nei Vangeli, che troviamo in essi la fonte di verità, sicurezza, vita, pace, infinitamente più che nella realtà di oggi. Essi offrono i riferimenti sicuri per la vita nel nostro tempo, per giudicare il miscuglio di verità e falsità della vita.[210] Siamo realisti! Solo confrontandoci con quegli avvenimenti concreti di duemila anni fa possiamo vincere agilmente i pesantissimi punti morti della vita di oggi. Soltanto quei fatti possono dare le idee e la forza per costruire un mondo nuovo, qualcosa di veramente nuovo, mai visto.

È anche tempo di rinnovare e difendere la civiltà cattolica, della cui “rendita” tutti vivono oggi ricevendo molto e che, se venisse a mancare, lascerebbe tutti indifesi di fronte alle tenebre invincibili dell’esistenza; se non ci fosse tutta quella gente che vive il cristianesimo ed è sale della terra in silenzio, che soffre in silenzio delle ingiustizie, delle incomprensioni e delle falsità.

 

ANNI 47-68

 

Apocalisse di Giovanni

 

Nella stessa comunità in cui fu scritto il Vangelo di Giovanni, fu redatta anche l’Apocalisse. È facile capirlo già dall’inizio di questo secondo libro, dove l’autore dichiara che Giovanni evangelista «ha testimoniato (nello stesso tempo) la parola di Dio (= quanto Gesù ha rivelato, conforme all’Ebraismo) e la testimonianza di Gesù Cristo (= il Vangelo, la Buona Novità)». L’ha fatto attraverso le sue testimonianze scritte nel Vangelo che porta il suo nome. La formula usata indica che l’Apocalisse si rivolge innanzitutto a cristiani ebrei,[211] ma non esclude coloro che, provenendo dalle Genti del mondo, ossia «dalla grande tribolazione», «hanno lavato le loro vesti e le hanno rese bianche nel sangue dell’Agnello»,[212] cioè tutti coloro che hanno creduto in Cristo e sono stati redenti, come i cristiani ebrei.

Dunque possiamo notare in questo libro una cultura fortemente ebraica, ma aperta alle Genti che accettavano la redenzione. Ciò è ben comprensibile dal punto di vista di Gamla, quale l’abbiamo già conosciuta, e ci permette di affermare che in questa città è nata l’Apocalisse di Giovanni, dopo un’ispirazione ricevuta nell’isola di Patmos.

Quelli di Gamla, dopo aver ascoltato Gesù, attendevano una «nuova Gerusalemme santa».[213]

Sul percorso storico dell’origine dei Vangeli abbiamo incontrato l’imperatore Caligola, la cui intenzione era di introdurre nel Tempio alcune statue sacrileghe. Non solo: egli perseguitò gli ebrei. Questi fatti segnarono profondamente anche la redazione dell’Apocalisse, poiché erano un’offesa alla Gerusalemme santa, assolutamente insopportabile per i “fratelli” di Gamla, per gli zeloti, per tutti gli ebrei. A Caligola si ispira appunto il numero 666.

Consideriamo i diversi numeri contenuti nei capitoli 13 e 17 del libro. Una “testa” della “bestia” era stata colpita a morte. Caligola fu il primo imperatore assassinato e possiamo riconoscere in questa “testa” proprio lui.[214] Infatti[215] era l’ottavo “re” a partire da Pompeo, che per primo dominò in Palestina, e contando Cesare, Crasso, Antonio, Lepido, Ottaviano, Tiberio e Caligola stesso. Il suo era il quinto “regno”, dopo il primo e il secondo triumvirato, l’impero di Ottaviano e quello di Tiberio. Tuttavia, il numero 666[216] indica un nome di persona, ma non rappresenta soltanto Caligola, indica il potere di Roma nel suo insieme.

Il libro fu scritto sotto l’imperato­re seguente, Claudio.[217]

Non c’è niente di misterioso nell’Apocalisse, perché «una voce» ha indicato all’autore gli elementi per proclamare una limpida profezia, ispirata dalle parole e dalle opere di Gesù Cristo. «Infatti la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia».[218] I simboli apocalittici usati provengono interamente dalle antiche Scritture, servono a mostrare che esse si sono realizzate nella vita e nell’opera di Cristo. Egli stesso ha poi pronunciato alcune profezie.

Sotto il simbolo della «voce» che suggerì l’Apocalisse, sorprendentemente, si cela ancora Luca. Infatti egli era «il fratello del quale, nel Vangelo, c’è fama tra tutte le Chiese»,[219] per tutto ciò che aveva fatto per il Vangelo, scritto e predicato. Tra l’altro aveva contribuito a interpretare le profezie di Gesù, con la stessa praticità e razionalità ellenista che troviamo nel Vangelo di Giovanni. Infatti poteva mettere a confronto tutto ciò che aveva visto, udito da Gesù sulla strada di Emmaus, raccolto dalle varie testimonianze. Ad esempio, Luca poteva ricordare che il diacono Stefano era stato accusato di parlare contro la Legge, completata da Cristo, e il Tempio, da lui reso inutile. Ciò aveva reso l’evangelista sensibile a ogni profezia di Gesù che parlasse di una rinascita di Gerusalemme e gli aveva fatto notare questa frase: «Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutte le genti; e Gerusalemme sarà calpestata da genti finché non siano pienamente realizzate opportunità per le genti».[220] Ciò voleva dire che, sì, Gerusalemme sarebbe stata distrutta insieme al Tempio, come Gesù aveva profetizzato (e gli ebrei non volevano sentirlo dire), ma un giorno sarebbe tornata a risplendere come città santa, dopo che anche le genti l’avessero riconosciuta come tale.

La profezia è indirizzata alle «sette Chiese che sono in Asia» per difenderle dai falsi apostoli[221] e per annunciare loro che presto ci sarebbe stata la redenzione, attraverso gli avvenimenti preannunciati da Gesù Cristo stesso: sostanzialmente tre.

Il primo sarebbe stato la caduta Gerusalemme, divenuta come Babilonia, che uccideva i profeti, e vendutasi ai potenti di Roma[222] trascinando nella corruzione tutta la “terra” (di Israele).

Ciò è accaduto storicamente nell’anno 73. Si può allora dedurre che anche le due profezie seguenti siano venute dalla bocca di Gesù. La seconda è che i santi (= i credenti in Dio e in Gesù) avrebbero regnato per mille anni con Cristo. Anche questa si è avverata, infatti il “regno dei mille anni” si può identificare storicamente nel periodo, durato dal 313 al 1302, in cui la Chiesa detenne anche un’autorità completa, anche politica.

La terza profezia annuncia una «nuova città santa Gerusalemme» che, nel linguaggio simbolico, deve «scendere dal cielo, da Dio», cioè deve essere edificata dalla Chiesa, fedele alla Legge di Mosè e alla testimonianza di Gesù Cristo, con il favore speciale di Dio. È immaginata come una città grandissima, suggerita dalla conformazione di Gamla: più o meno rettangolare, distesa sul pendio del monte. Ma larga più di duemila chilometri, su un piano inclinato con base e altezza delle stesse dimensioni. Questo modo di immaginarla rivela un pensiero geometrico di tipo greco. È simbolo di redenzione per gli Ebrei e per le Genti. La redenzione della Gerusalemme santa sarebbe iniziata presto e si sarebbe completata dopo mille anni, più un tempo indeterminato. Questa profezia non si è ancora avverata.

I cristiani di Gamla, che pure erano in continuo collegamento con Luca e a Paolo, sapendo che La Gerusalemme-Babilonia sarebbe stata distrutta, dedicavano le loro forze e la loro attesa alla redenzione della «sposa», che doveva preparare nei secoli una «nuova città santa Gerusalemme». Non pensavano all’insurrezione contro i Romani.

Non aspettavano dunque la “fine del mondo”, ma il ritorno regale di Gesù Cristo (parusìa) e la conclusione del “secolo”, cioè del tempo di potere del diavolo. Non sapevano come ciò si sarebbe realizzato e non immaginavano che cosa sarebbe accaduto alla loro città, ma sapevano che, pur attraverso grandi tribolazioni, Gamla sarebbe stata un segno nei secoli.

Intanto, chiunque volesse, era invitato nella Chiesa e poteva «prendere acqua di vita gratuitamente».[223]

 

Atti degli Apostoli

 

Il re Agrippa I, nel 48, fece decapitare Giacomo, fratello di Giovanni, e fece mettere in prigione Pietro.

Pietro, liberato miracolosamente, tornò a Roma,[224] ora con il Vangelo di Marco, mentre Marco rimase a Gerusalemme. Ma come si svolse la vicenda dell’evangelista Luca?

A lui viene attribuito con certezza, oltre il Vangelo, anche il libro degli Atti degli Apostoli.  Luca stesso è coinvolto nei fatti che narra. Indirizza ancora il libro a Teofilo,[225] che pur non avendo più il potere politico di sommo sacerdote, aveva intrapreso un’abile opera da avvocato di Cristiani ed Ebrei ed era rimasto suo amico.

Sebbene i Padri della Chiesa dicano che Luca non conobbe Gesù direttamente, e che egli, «compagno di Paolo, pose in un libro il Vangelo da lui predicato»[226] non sostengono le loro affermazioni fondandosi su dati storici, ma sulla lettura dei Vangeli e degli Atti, fatta a prima vista. A un attento esame, tali notizie appaiono poco attendibili. Infatti Luca, nell’ultima parte del Vangelo e poi negli Atti degli Apostoli, racconta soltanto avvenimenti che una persona poteva seguire più o meno direttamente. La sua narrazione percorre un tragitto, che è verosimilmente quello da lui stesso percorso.

Il racconto incomincia da Gerusalemme, perché in questa città Luca abitava ed era medico professionista del Tempio. A Gerusalemme, non era stato discepolo passivo, aveva sostenuto l’attività pubblica di Gesù.

Come ci riferisce il “prologo antimarcionita”, Luca fu «discepolo degli Apostoli», non di Paolo, ma egli può aver conosciuto gli Apostoli soltanto a Gerusalemme, nei primi anni della Chiesa. Infatti il racconto degli Atti prosegue con lo spostamento di Paolo, Barnaba e Marco da Gerusalemme ad Antiochia di Siria, intorno all’anno 48; ciò significa appunto che anche Luca, il narratore,[227] seguiva Paolo. In effetti, egli non parla più di ciò che avvenne a Gerusalemme ma solo delle azioni di Paolo.

L’Apostolo delle Genti incominciava i viaggi faticosi e avventurosi della sua missione, scrivendo le Lettere alle varie comunità da lui fondate, sostenuto dalla collaborazione fedele e continua di Luca, mentre Teofilo vegliava, presso il potere di Roma e di Gerusalemme, sull’opera di Paolo e sull’espansione della Chiesa.

Paolo, nella sua predicazione, trasmetteva quello che aveva ricevuto,[228] anche se, per sostenere l’autenticità del suo mandato apostolico, dice che all’inizio non è andato a chiedere istruzioni agli altri Apostoli, ma ha predicato ciò che gli era stato ispirato direttamente da Gesù Cristo, e ne ha trovato poi conferma, nell’incontro con Pietro e Giacomo «tre anni dopo».[229] Per quanto riguarda le opere e le parole di Gesù, Paolo non aveva avuto alcuna possibilità di conoscerle con la precisione con cui le narra Luca. È stato invece Luca a comunicare tutte queste cose a Paolo. Era con lui fin dall’inizio, anche se non ha scritto molto di se stesso.

Anzi noi possiamo comprendere molto più facilmente l’azione e gli scritti di Paolo, se prima leggiamo come documenti storici i Vangeli e l’Apocalisse: è importantissimo questo aspetto dei libri della nostra fede. Paolo ha potuto “costruire” la sua dottrina con le testimonianze di chi aveva visto Gesù, come già gli scribi di Matteo avevano potuto dare un’interpretazione delle parole e delle opere del Cristo di cui erano stati testimoni.

Quando l’Apostolo delle Genti usa l’espressione «il mio Vangelo»,[230] non si contrappone agli Apostoli autentici, ma ai “superapostoli”, da identificare con i Nicolaiti; oppure ha in mente i Gentili, che non conoscono Gesù Cristo.

Luca, seguendo Paolo, manteneva l’abitudine di annotare i fatti più rilevanti.

Come abbiamo notato, per tradizione si pensa che Luca sia stato convertito da Paolo e che le “sezioni noi[231] degli Atti degli Apostoli indichino i momenti in cui l’evangelista seguì l’Apostolo. In realtà i passi degli Atti dove Luca si mette tra i protagonisti sono per lo più relazioni dei viaggi per nave, in cui Luca, uomo di legge, era coinvolto come testimone e garante, per i viaggiatori e per il carico di merci.

Quando poi Paolo tornò a Gerusalemme, Luca era con lui, per questo ci riferisce l’arresto e i processi che egli subì. Paolo, per difendersi dagli accusatori ebrei, si appellò all’imperatore, che in quel momento era Nerone.

Qui si deve inserire l'epistolario tra Seneca e San Paolo, che è solitamente considerato apocrifo, ma che Marta Sordi ha scoperto essere autentico, eccetto la lettera che parla dell'incendio di Roma e la quattordicesima.

Tra l'altro, Seneca si rivolge nella settima lettera anche a Teofilo, di cui non dà ulteriori notizie.

Paolo non parla mai di Teofilo, come amico o collaboratore, ma nella seconda lettera ai Tessalonicesi[232] accenna a un personaggio che trattiene il mistero dell'illegalità, in cui si trovano i Cristiani nell'impero romano. Si può ipotizzare che si tratti proprio di Teofilo e la sua presenza a Roma, insieme a Paolo, ne è la conferma.

Paolo si appellò a Cesare, ossia a Nerone, appunto perché sapeva di poter contare su un avvocato, abile e potente presso l'imperatore, quale era Teofilo.

Marta Sordi, ragionando sulla possibilità del carteggio tra Seneca e Paolo, corregge anche l'anno in cui Paolo, Luca e i loro amici arrivarono a Roma. Non agli inizi del 64 (la datazione, nella presente esposizione, tiene conto dei 3 anni "persi" da Tiberio), ma nella primavera del 59 (ex 56). Infatti Marta Sordi fa presente che, secondo fonti romane, Felice fu governatore in Palestina nel "53-54", ossia nel 56-57. I «due anni» di Atti 24,27 rappresentano appunto la durata del governatorato di Felice.

Il successore, Festo, assecondò la richiesta di Paolo e lo inviò a Roma nel tardo autunno del 58.

Gli Atti degli Apostoli riferiscono che vi rimase per due anni almeno, 59 e 60, e così il racconto finisce.

Luca narra, dunque, i fatti a cui è stato presente. Se avesse raccolto notizie da altri, certamente ne avrebbe cercato su tutti gli Apostoli. Non avrebbe seguito un percorso geografico ma avrebbe cercato di comporre un quadro sia di personaggi che di luoghi.

A Roma, quasi certamente, Teofilo si era offerto come avvocato per il giudizio che Paolo doveva sostenere. Così, dopo trent’anni, lo troviamo ancora all’opera per «trattenere il mistero dell’iniquità», difendendo l’apostolo Paolo dagli accusatori ebrei e dal supremo giudice romano, l’imperatore. E Luca preparava la difesa provvedendo a consegnargli la relazione di quanto avevano compiuto gli Apostoli, in particolare Paolo. I due difensori seguivano questa linea: nessuno, nella Chiesa, aveva compiuto delitti contro gli Ebrei o i Romani.

Probabilmente il giudizio non ebbe luogo, perché non si presentarono gli accusatori, cosicché Paolo fu mandato assolto. Era l’anno 62 e Nerone poté conoscere bene i cristiani; cinque anni dopo gli venne l’idea di perseguitarli.

Se ben li esaminiamo, gli Atti degli Apostoli appaiono proprio come atti per un processo. Se non li leggiamo con questa idea, non hanno un chiaro fine religioso, sembrano in molti passi una narrazione storica fine a se stessa. Però, tenendo presente lo scopo giudiziario, possiamo raccogliere proprio i fatti storici, raccontati in modo conciso ma esatto. Così, analizzando la narrazione e collegando i fatti con quanto ci dicono altri libri del Nuovo Testamento, scopriamo con quale concretezza il Regno di Dio si manifestava già nella storia, con quante ragioni valide i cristiani aderivano a Gesù Cristo.

Dopo l’anno 67, Luca pubblicò il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, probabilmente in Grecia (Acaia), quando ormai non servivano più come prove, a causa della persecuzione di Nerone.

 

ANNI 68-73

 

La caduta di Gamla

 

Nell’anno 67, le possibilità di Teofilo di sostenere i Cristiani vennero meno, perché l’imperatore Nerone, avendo ordinato di incendiare Roma, aveva il disperato bisogno di trovare qualcuno a cui addossarne la colpa e aveva deciso di accusare e mettere a morte i Cristiani. Perciò la situazione precipitò e Teofilo venne tagliato fuori.

Uscito di scena Teofilo, secondo le previsioni di Paolo, l’ostilità verso i Cristiani si scatenò.[233] Tuttavia i Cristiani aumentavano di numero e il Regno di Dio si manifestava chiaramente proprio tra le persecuzioni, come aveva avvertito Gesù stesso.

Durante la persecuzione di Nerone, il 13 ottobre del 67 Pietro fu crocifisso a Roma[234] e nel 70 Paolo, che probabilmente si era recato in Spagna e poi era tornato a Roma, fu arrestato e decapitato.

Intanto era iniziata la rivolta giudaica perché neppure in Palestina Teofilo aveva più potuto fare alcunché né per i Cristiani, né per la nazione ebraica nel suo insieme.

All’inizio della Rivolta, il re di quella regione, Erode Agrippa II, cercò di convincere anche gli abitanti di Gamla ad arrendersi subito ai Romani; ma Gamla non si piegò. Agrippa allora pose l’assedio alla città, nella prima metà di ottobre dell’anno 69, e lo mantenne per sette mesi, senza riuscire a espugnarla. Intervennero le legioni romane, al comando di Vespasiano e poi di suo figlio Tito, ma riuscirono a prenderla soltanto dopo altri sei mesi di assedio, nella prima metà di novembre del 70.

Nel periodo dell’assedio, o appena prima, a Gamla venne coniata una moneta, simile ad altre che venivano emesse a Gerusalemme. Queste presentavano la figura di una coppa[235] e la scritta «Gerusalemme Santa», mentre quella di Gamla recava una scritta diversa e originale: «Per la redenzione della Gerusalemme santa». Una curiosità: chi ha coniato questa moneta era inesperto dei caratteri paleo-ebrei usati, questo potrebbe significare che a Gamla molti parlavano greco, e non aramaico o ebraico, proprio come risulta dal Vangelo di Giovanni e dall’Apocalisse, ma c’era bisogno di comunicare con gli altri ebrei. Notiamo che anche l’Apocalisse profetizza la «nuova Gerusalemme redenta»; la redenzione è rappresentata dal simbolo della veste bianca.[236] Ma, nello stesso tempo, l’Apocalisse insiste più volte nel dichiarare che i “fratelli” di Giovanni erano sia fedeli ebrei, sia fedeli cristiani.

Di quella moneta a Gamla sono stati trovati sei esemplari. Deve essere stata coniata proprio perché quella città era diventata cristiana. Poiché gli altri potavano avere dubbi, gli abitanti di Gamla vollero comunicare il messaggio preciso che, benché cristiani e benché arroccati in luogo isolato, sarebbero stati fedeli alla Legge di Mosè e alla causa comune fino alla fine.

Tuttavia consideravano controproducente cercare di scacciare i Romani da Gerusalemme, sapendo che la città, che per essi era una nuova “Babilonia”, sarebbe andata distrutta e che anche del Tempio non sarebbe rimasta «pietra su pietra». Perciò pensarono in qualche modo di prendere su di loro la redenzione, che sarebbe stata più opera di Dio che degli uomini, della Gerusalemme santa. La loro fedeltà agli alleati ebrei di Palestina, Mesopotamia e Asia Minore durò fino alla morte per mano dei Romani.

Infatti lo storico Flavio Giuseppe non chiama mai “briganti”, come invece chiama gli zeloti, gli abitanti di Gamla, anzi dice, con malcelato orgoglio, che avevano pochi armati e tuttavia resistettero per un anno e un mese, sia all’assedio di Agrippa che a quello dei Romani. Ciò significa che Gamla aveva qualcosa di speciale, una particolare tenacia e fedeltà alla Legge, ma nello stesso tempo un atteggiamento che attirava la benevolenza di tutti. Luca e Marco[237] lasciano intendere che, all’inizio della vita pubblica di Gesù, la gente di Galilea si teneva lontana da quella città nel deserto. Poi, in Guerra Giudaica,[238] troviamo scritto che la città si era riempita di rifugiati. Una città così piccola, così orgogliosa della sua indipendenza, aveva accolto tutta quella gente che rendeva difficile l’organizzazione e la difesa! Era decisamente cambiato qualcosa, spiegabile con la conversione a Gesù Cristo. Era diventata città aperta, come scopriamo nell’Apocalisse e insieme in Guerra Giudaica. Non aveva molti uomini armati perché pensava ormai più al Regno di Dio che non a quello umano, benché fosse pronta a difendere i suoi ospiti. Nessun’altra città che resistette ai Romani, tranne forse la fortezza di Masada, è presentata con questa segreta ammirazione in Guerra Giudaica, dicendo addirittura, in alcuni momenti, che aveva il favore di Dio.[239] Lo storico, ormai passato dalla parte dei Romani, scriveva da un punto di vista romano, ma non poteva dire niente di male, nemmeno da sacerdote ebreo quale era, di quel connubio tra ebraismo e cristianesimo che si era realizzato a Gamla. Anzi lo ammirava e, all’inizio della Rivolta, aveva preparato la difesa della città.[240]

Gli abitanti di Gamla furono martiri di Gesù Cristo, come molti altri sotto Nerone, della fedeltà alla Legge di Mosè e della causa della «redenzione della Gerusalemme santa».

Anche se la sua città, Gamla, è caduta,[241] non è vanificata l’attesa che la “donna”, la “sposa”, Gamla stessa, dia luogo a suo tempo alla «nuova città santa Gerusalemme».

Gamla potrebbe diventare, oggi, il simbolo del dialogo tra Ebrei e Cristiani, un segno che riporta alle origini, quando il dialogo funzionò per parecchi anni.

Infatti, mentre la “donna”, cioè la comunità di Gamla, costituiva, insieme a un buon numero di sacerdoti di Gerusalemme, un gruppo che collaborava con tutti per il bene della Nazione e permetteva agli Apostoli di Gesù Cristo di guidare i Cristiani da Gerusalemme, nello stesso tempo un sacerdote del gruppo, Teofilo, si era preso l’incarico di fare da avvocato di quest’opera presso i Romani. Tutto funzionava bene ma l’apostolo Paolo intravedeva l’insidia dal mistero dell'illegalità, destinato a manifestarsi quando Teofilo fosse uscito di scena. Ciò avvenne allorché la lucida pazzia di Nerone impedì a Teofilo di continuare la sua opera. Questo fatto coincise l’accentuarsi dei motivi che portarono alla Rivolta Giudaica. Le persecuzioni di Nerone verso i Cristiani e la caduta di Gamla segnarono poi l’indebolirsi progressivo del dialogo tra Cristiani ed Ebrei.

Nerone, Vespasiano e Tito, prendendo Gamla, interruppero, o meglio congelarono e immortalarono, l’impegno di alcuni cristiani a tenere unito l’Ebraismo al Cristianesimo. Era volontà di Dio che il completamento della «redenzione della Gerusalemme santa» fosse rinviato, dopo mille anni e più, per un tempo indeterminato, «finché non fossero realizzate piene opportunità per le Genti».[242]

Gamla, città di redenti, non doveva certamente imporsi al mondo con la sua potenza, perché la fede non si può imporre, ma era un’intera città, con tutti i suoi affari, esempio di credenti «che avevano ricevuto vita nel nome di Gesù Cristo».[243]

La presenza di Gamla è un elemento chiave, che conferma anche tutto il ragionamento presentato finora, perché il Vangelo di Giovanni, scritto a Gamla, deve essere stato redatto, non pubblicato, prima di ogni avvenimento sconvolgente in quella città, perché Giovanni non offre il minimo accenno alla rivolta contro i Romani. Questo Vangelo si può combinare con quello di Luca, perciò ambedue devono essere stati scritti molto prima del 70, quando Gamla fu presa e gli abitanti vennero uccisi dalle truppe romane.

 

Pubblicazione del Vangelo di Giovanni

 

In quegli anni Giovanni si stabilì a Efeso, dove c’era una delle «sette Chiese che sono in Asia», in seguito agli avvenimenti di Palestina. Qui completò l’edizione del Vangelo e lo pubblicò, forse aggiungendo l’inizio del capitolo 8.[244] Per pubblicare il Vangelo, lo si trascrisse dal rotolo su codici. Le note scritte in margine vennero integrate nel testo, ma si volle mantenere ben distinta la relazione dei fatti dalle spiegazioni. Se lo scriba non avesse voluto mettere la massima cura in questo, bastava inserire nel testo del racconto qualche parola, che servisse direttamente da interpretazione delle parole di Gesù e dei fatti. Ma il redattore era convinto – e ha raggiunto il suo intento, se sappiamo distinguere le varie parentesi inserite nel testo – di mostrare chiaramente le diverse componenti, con il loro rispettivo valore. Infatti, a noi che leggiamo il Vangelo, i commenti appaiono pochi, brevi e scritti in modo tale che sia facile distinguerli.

 

Le date di redazione e di pubblicazione dei Vangeli

 

I quattro Vangeli furono pubblicati in tempi e luoghi distanti tra loro e non era facile rendersi conto di ciò che abbiamo ricostruito.

Adesso però, avendo davanti i Vangeli insieme, si scopre quale stretta relazione c’è tra l’uno e l’altro. Da tutto il percorso tracciato fin qui, emerge che i quattro libri, come li possediamo, sono stati scritti nel preciso ambiente storico dei primi quindici anni successivi ai fatti. Gli autori si sono trovati insieme a Gerusalemme per lunghi periodi e qui si sono confrontati e hanno scritto, anche se la vicenda del Vangelo di Giovanni e più articolata. Inoltre, avendo ognuno uno scopo internazionale, scrissero subito tutti in greco, secondo questa sequenza:

1) Giovanni, dall’anno 29 in poi;

2) Luca, dal 33 al 40 circa;

3) Matteo, dal 40 al 42 circa;

4) Marco, negli anni 45 e 46.[245]

È assai più semplice leggere i quattro Vangeli canonici, se li consideriamo scritti in stretta connessione tra loro, da persone che si trovavano vicine nella città di Gerusalemme.

Se però si ritiene che questi libri siano stati scritti dopo la rivolta giudaica e la distruzione del Tempio, si deve anche ricordare che ormai gli autori, se non erano già morti, si erano dispersi nell'impero romano e oltre.

Non sarebbe stato possibile il confronto diretto tra gli Evangelisti e l'interpretazione si complicherebbe, fino a togliere ogni fondatezza storica ai racconti e a trasformare le parole e le azioni del Cristo Re in una riflessione teologica degli uomini, i dati storici in puro simbolismo.

I Vangeli sono stati scritti in quei tempi e in quelle circostanze che abbiamo descritto: è la condizione necessaria perché abbiano le caratteristiche che hanno, uno per uno, con le loro somiglianze e le loro differenze.

Ma già nel II secolo i Padri della Chiesa non avevano potuto riconoscere questo ordine.

Tra il tempo di pubblicazione dei Vangeli e il momento in cui hanno scritto i Padri, c’è stato più di mezzo secolo di avvenimenti convulsi: persecuzioni, caduta di Gerusalemme e dispersione degli Ebrei, divergenze sempre più profonde tra ebrei e cristiani. Il succedersi degli avvenimenti e poi qualche errore di traduzione o interpretazione, ha fatto sì che in pochi decenni si perdessero quasi completamente le tracce del modo in cui vennero redatti questi quattro libri.

E così i Vangeli ci sono pervenuti in un altro ordine, che è quello di pubblicazione. Da qui è nato un punto di vista, che si è consolidato nei millenni e che si è ritenuto ormai l’unico raggiungibile.

È più facile per noi che per i Padri trovare notizie sicure sull’origine dei Vangeli, perché si trattava di superare quel punto di vista attraverso informazioni più ampie.

Ecco qual è l’ordine di pubblicazione:

1) Matteo nel 43 circa, in Palestina,

2) Marco nel 47 circa, a Roma,

3) Luca dopo la persecuzione di Nerone del 67, pubblicato forse in Grecia, insieme agli Atti degli Apostoli,

4) Giovanni, a Efeso, dopo il 70.

Marco stesso, qualche anno dopo, curò una seconda edizione del suo Vangelo, con l’aggiunta dell’elenco delle apparizioni di Gesù risorto.[246]

Questa ricostruzione della storia dei Vangeli è stata possibile soltanto dopo aver rinnovato la traduzione del prologo di Luca.

Quando Luca pubblicò il Vangelo, non aveva alcun motivo per spiegare che l’aveva scritto circa 25 anni prima: Ha pensato soltanto a pubblicare il documento in modo esatto, perché la situazione che l’aveva reso necessario era cambiata completamente. Quel progetto, di far riconoscere dal senato di Roma che Gesù era un dio, era stato superato dalla storia e diminuiva sempre più anche la possibilità di tornare in pace con i Giudei. Per questo i Padri del II secolo, scrivendo notizie sui Vangeli e gli evangelisti, non hanno saputo dire nulla di preciso sull’origine del Vangelo di Luca, che è il riferimento principale per iniziare a raccogliere notizie più precise anche sugli altri.

Infatti i sinottici nascono da due decisioni, che Luca ci fa conoscere nel suo scritto: quella di riordinare il primo racconto pubblicato da Matteo e quella di offrire la prova a Teofilo. Il Vangelo di Giovanni è nato in stretta relazione con il primo racconto scritto da Matteo.

 

RITORNO ALLA NOSTRA REALTÀ

 

Dai fatti e dai Vangeli, …

 

In conclusione: tutto ciò che abbiamo detto rende più facile leggere i Vangeli perché abbiamo scoperto che sono concreti in tutto. D’altra parte, possiamo verificare il valore delle riflessioni che sono state qui esposte, provando a leggere Vangeli come libri pienamente storici, oltre che come libri di fede.

Gli autori dei Vangeli raccontano soltanto una parte limitata della storia di quegli anni, perché vi erano immersi, allo stesso modo dei lettori; non avevano bisogno di raccontare tutto. Erano ben coscienti di riferire avvenimenti storici soprannaturali, che però erano avvenuti nella realtà quotidiana.

Non hanno neppure compreso del tutto ciò che era avvenuto. Ma si sono impegnati a fondo nello scrivere e tradurre fedelmente, nel fissare quello che essi stessi avevano potuto comprendere, senza alterare la verità storica, così che ci hanno fatto arrivare il racconto migliore. Erano in contatto tra loro e ognuno spiegato i particolari che potevano essere poco chiari nella narrazione degli altri.

In questo modo i Vangeli, come documenti storici, si reggono da soli. Non hanno bisogno di molte conferme da parte della ricerca archeologica o storica, anzi forniscono dati originali agli storici e indicazioni agli archeologi.

I Vangeli sono racconti di fatti veri, ma sono anche libri ispirati. Sono di duemila anni fa, ma sono anche esattamente per il nostro tempo, poiché il protagonista, Gesù Figlio di Dio, aveva presente ciascuno di noi. L’ispirazione divina ha fatto sì che potessimo riavere presenti quei fatti, credere e avere vita in Gesù Cristo.

Quale meraviglia è scoprire, dietro le parole antiche di questi libri, tutto un mondo vero, vivo, reale! Se leggiamo i Vangeli dal punto di vista qui proposto, possiamo percepirvi il clima, le stagioni, la situazione del momento e tutti gli aspetti concreti che resero sicura e operante la fede dei primi cristiani.

Essi non vivevano di entusiasmi puerili, ma dell’eredità di Gesù Cristo, fatta di insegnamenti precisi e di azioni storiche. Dovettero anche affrontare grandi difficoltà, ma avevano una solida base umana e, in particolare, giuridica.

 

…attraverso la Tradizione, …

 

Perciò la Tradizione, fin dall’inizio, è la Chiesa che vive ciò che Gesù ha detto e fatto, attraverso i poteri che egli ha conferito agli Apostoli. Nei primi tempi i cristiani potevano riferirsi sempre alla memoria dei primi discepoli, ma poi si sono riferiti a ciò che era scritto «fin dal principio».

Il motivo per cui la Chiesa ha indicato come ispirati e sacri soltanto questi quattro Vangeli, che a prima vista appaiono lacunosi e addirittura contradditori, tra i molti libri dei primi secoli che raccontano di Gesù Cristo è semplice: erano gli unici scritti completamente dagli apostoli testimoni o da altri discepoli vicini a loro, in un tempo in cui la memoria dei fatti era ancora sicura e precisa.

I cristiani non avrebbero potuto ricevere gran vantaggio dai racconti detti “apocrifi”, i cui autori hanno inventato avvenimenti fantastici, perché la memoria dei fatti che non erano stati fissati immediatamente per iscritto si era deteriorata presto e non c’erano testimonianze esatte e attendibili di fatti diversi da quelli già scritti nei quattro Vangeli.

Senza il Vangelo, scritto “a caldo” contemporaneamente agli avvenimenti, anche la Tradizione sarebbe sembrata senza fondamenta. [247]

Certamente la Chiesa, con la sua Tradizione viva, permette di non dover continuamente ricercare le origini della nostra fede. Tuttavia si deve tener presente che nel nostro tempo, da ogni parte, vengono messe in discussione le parole tradizionali, per cui occorre fornire le ragioni della fede cristiana cattolica, verificando storicamente i suoi fondamenti.

Trovato il giusto punto di vista, i Vangeli si presentano per quel che sempre ha creduto la Chiesa: semplice testimonianza di fatti storici, nei quali Dio è venuto incontro al nostro bisogno di redenzione. L’opera che Dio ha compiuto duemila anni fa, si rinnova perennemente nella memoria che ne producono i quattro libri e quei fatti sono sempre attuali, sono da contemplare per ricevere vita piena.

Il tesoro riappare veramente intatto; ciò che crede la Chiesa è tutto confermato. Non c’è da temere nulla, perché la verifica conferma la Tradizione.

 

…alla vita dei cristiani, oggi, per dare speranza al mondo

 

I cristiani, per alimentare la propria fede e per ritrovare il fervore della missione a vantaggio del mondo, possono appoggiarsi alle testimonianze oltremodo concrete dei quattro Vangeli e tenere gli occhi fissi alla profezia dell’Apocalisse, in parte già realizzata nel preciso ordine cronologico in cui è proclamata.

Non si deve più temere che le origini della fede cristiana siano state raccontate in modo deformato.

È necessario porre la dovuta attenzione ai Vangeli.

Il mondo li considera ben poco importanti, in quanto non li riconosce come veri libri storici ma come racconti celebrativi che vanno bene soltanto per chi crede. Perciò si rischia di non comprenderne fino in fondo il valore, anzi non ci si rende conto che Gesù Cristo ci salva realmente, in qualsiasi frangente. In verità ciascuno dei quattro libri è stato scritto nelle dure situazioni della vita, anche se non è evidente, per il fatto che gli evangelisti vivevano la vittoria di Gesù Cristo sul mondo. Sono libri essenziali per la vita di ogni uomo e per la storia umana.

Nei Vangeli trovano conferma anche quegli aspetti della Tradizione, che sembravano inconciliabili con la concretezza storica di questo mondo. La Tradizione risulta tutta vera e fondamentale, nello stesso tempo in cui si verifica la Scrittura evangelica.

Inoltre i racconti storici dei Vangeli, anche quando li leggiamo personalmente, ci consentono l’incontro con la persona storica del Maestro e Signore, che ci parla e ci mostra le sue opere perché portiamo molto frutto.

Giovanni Conforti

Aggiornato il 1 marzo 2011

 


Iniziativa personale di un laico cattolico, Giovanni Conforti  - Brescia - Italia.

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[1] Vedere Le date. Tiberio era imperatore dal luglio dell’anno 14.

[2] Sua madre era Salome (confrontare tra loro Mt 27,56 e Mc 15,40).

[3] Vedere F. Giuseppe, Guerra Giudaica, III,35-58.

[4] Mc 7,37.

[5] At 4,13.

[6] Gv 3,11.33.

[7] Lc 1,80.

[8] Lc 1,66.

[9] È un luogo sulle montagne a ovest del Mar Morto, dove, a partire dal 1947, sono stati trovati in grotte sigillate molti papiri scritti dagli esseni.

[10] Gv 1,31.

[11] Gv 1,15.

[12] Mt 3,15.

[13] Vedere F. Giuseppe, Guerra Giudaica, II,142.

[14] Gv 1,29.36.

[15] Gv 1,35-39.

[16] Gv 2,24-25.

[17] Vedere Gesù Cristo, nota a Gv 1,19.

[18] Gv 1,40-42.

[19] Gv 21,2.

[20] Vedere Gv 2,24.

[21] I nomi “in ebraico” riportati dai Vangeli sono in realtà in aramaico.

[22] Vedere Gv 19.20.

[23] Vedere, ad esempio, il termine oyarion di Gv 6,9.11 e 21,9.10.13.

[24] Ap 1,4.

[25] Gv 7,35; 12, 20.

[26] Vedere Gv 12,21.

[27] Gv 7,32-35.

[28] Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart (1988).

[29] Lc 3,15.

[30] Ap 10,4.

[31] Gv 1,34; 3,11; 3,32-33; 4,42; 5,32.36.39, ecc.

[32] Gv 2,24-25.

[33] Gv 3,11.

[34] Vedere Gesù Cristo, nota a Gv 3,36.

[35] Tra le età che ha creato, Dio ha particolare attenzione per i 15 anni. Infatti mentre l’evangelista Giovanni aveva circa questa età, Gesù gli impartì insegnamenti senza uguali. Ricordiamo anche che Maria è apparsa a Fatima con un’età di «circa quindici-diciotto anni», come immagine di riferimento per uomini e donne. Questa è un’età in cui non si è ancora fatto quasi niente di importante, ma in cui chi ha ricevuto i doni cristiani si può aprire a costruire grandi cose, vita vera.

[36] Mc 3,17.

[37] Confrontare Lc 5,17-26 con Mc 2,1, dove si dice semplicemente che Gesù era in casa, cioè nella casa di Pietro che è il testimone del Vangelo di Marco.

[38] Lc 4,14.

[39] Lc 1,2. Vedere Traduzione ragionata del Prologo di Luca.

[40] Vedere Lc 16,5-7.

[41] Lc 6,47-49.

[42] Mt 13,51-52 lascia capire che Gesù stesso li incoraggiava a scrivere, perché si costituissero un tesoro da scribi.

[43] Giovanni era anche molto giovane e meno degli altri poteva portare il peso di tutte le cose che Gesù diceva (Gv 14,26; 16,13-15).

[44] La sua Buona Notizia (2 Tm 1,10).

[45] Mt 28,18.

[46] Ap 10,5-7.

[47] Gv 20,4; Lc 9,54.

[48] Da Gv 5,16.

[49] Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, III,43.

[50] Mt 14,13; Mc 6,31-33; Lc 9,10-11; Gv 6,1. Notiamo che Mc 6,45-47, se facciamo bene attenzione al testo greco, dice: «...di precederlo, in direzione dell’altra riva (cioè in direzione di Cafarnao), davanti a Betsaida», dove dovevano attenderlo per prenderlo in barca con loro.

[51] Mt 14,21; Gv 6,10.

[52] Gv 6,6.

[53] Gv 6,14-15.

[54] Vedere Gv 6,10.

[55] F, Giuseppe, Guerra Giudaica, II,568.

[56] Mt 5,14.

[57] Gv 1,5-18.

[58] Gv 18,36.

[59] Vedere anche Ap 13,17: la gente a cui appartiene l'autore dell'Apocalisse aveva come attività più importante quella di «comprare e vendere».

[60] F. Giuseppe, Guerra giudaica, III,56-57; IV,38.

[61] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, IV,18.68.

[62] L’evangelista Giovanni chiama “brigante” Barabba (Gv 18,40), che doveva essere appunto uno zelota, perché partecipò a una sommossa (Lc 23,19), così come il fariseo Flavio Giuseppe chiama “briganti” gli zeloti. Giuda figlio di Ezechia fu il fondatore della setta degli zeloti, derivata da quella degli esseni (F. Giuseppe, Guerra Giudaica, 1,204; 2,56.118). Giuda era di Gamala (Antichità Giudaiche, XVIII,4).

[63] Gv 7,35.

[64] Vedere Mt 5,14.

[65] Ap 10,1-2.

[66] Ap 1,4; 2,1.

[67] Gv 4,22.

[68] Gv 7,35; 12, 20.

[69] Gv 11,51-52.

[70] Era un adulto, ma non vecchio, e dobbiamo tener presente che, tra gli ebrei, chi studiava esercitava anche un lavoro pratico; così ritroviamo questo personaggio pronto ad andare a pesca (Gv 21,3).

[71] Il «libro aperto» di Ap 10,2 (vedere anche Gv 20,30).

[72] Vedere Gv 1,1.

[73] La dottrina ellenistica del «logos».

[74] 1 Gv 2,7.

[75] Ap 1,2; 19,10.

[76] Gv 7,35; 12,20.

[77] Vedere Gesù Cristo, nota a Gv 1,19.

[78] Col 4,11.14: non veniva dalla circoncisione ed era medico.

[79] 2 Cor 8,18-20.

[80] At 6,5.

[81] La più antica fonte sulla morte e sepoltura di Luca sembra essere quella di un anonimo copista della fine del Il secolo (rivisto nel IV secolo) che, in testa a un codice che conteneva i libri dei Nuovo Testamento, inserì uno scritto contro l'eretico Marcione: questo testo, il cosiddetto Prologo antimarcionita, parla della morte di Luca in Beozia.

[82] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, III,56-57.

[83] Gv 18,15: il sommo sacerdote, però, doveva essere Teofilo, che poteva diventarlo per diritto, non Caifa, che lo era effettivamente in quel momento.

[84] Analizziamo Lc 9,51, che riferisce questa notizia, in greco. La parola greca “prosopon” (pròsopon) può significare “faccia”, “aspetto”, “cospetto”, “maschera”, “persona”, “simbolo”… Anche a quel tempo, chi aveva un ruolo giuridico e politico, in particolare i re, sceglieva un suo stemma, un simbolo, da portare su un vessillo. Gesù Cristo fissò il suo il suo vessillo con uno stemma per andare a Gerusalemme, come ne era stato fissato uno per il suo “esordio” nella vita pubblica (At 13,24).

At 13,24 (pro proswpou thV eisodou autou : «[...] dopo che Giovanni ebbe predicato, davanti al “vessillo” del suo esordio, un battesimo di conversione a tutto il popolo d'Israele») ci mostra che prosopon può significare “vessillo”, “simbolo”, “stemma” di una persona autorevole; tale appare anche in Lc 9,52 e 10,1. Non si può identificare con la “faccia” di Gesù, perché dai versetti seguenti appare chiaro che, pur riguardando Gesù, è qualcosa di distinto da lui.

In Luciano 29,5 analhyiV è l’incaricarsi di qualcosa, mentre in 3,11 troviamo l’espressione analambanein proswpon tinoV, con il significato di “prendere il ruolo di qualcuno”.

Per quanto riguarda la costruzione stessa della frase e, in particolare, il verbo sthrizw, Lc 16,26 presenta un altro esempio (metaxu hmwn kai umwn casma mega esthriktai) in cui il verbo significa “stabilire qualcosa di materiale”, di giuridico-legale, e non esprime una decisione interiore della volontà. Ritengo che altre espressioni, anche dell’AT, che sono state interpretate come «indurire la faccia», significhino in realtà «fissare il proprio simbolo»; ad esempio Ger 5,3: esterewsan (verbo stereow) ta proswpa epi petran, che potremmo tradurre: «hanno fissato i simboli (delle proprie decisioni) su pietra».

[85] Lc 9,52-56.

[86] Lc 24,21: «Noi speravamo che fosse lui a redimere Israele» dalla dispersione e dai diversi nemici, ma in amicizia con Roma.

[87] Lc 19,11; Ap 10,5-7.

[88] Lc 19,1.28.37; 22,8…: particolari riportati da Luca soltanto.

[89] Vedere Le date.

[90] Vedere Lc 13,35; confrontare tra loro Lc 19,11; 24,19-25; 9,51; 13,31-35.

[91] 1 Gv 2,7.24; 3,11; 2 Gv 5-6.

[92] Vedere Ap 13,17.

[93] Gv 7,35.

[94] «Kai edoxasa kai palin doxasw» (Kài edòxasa kài pàlin doxàso) (Gv 12,28).

[95] At 12,12.

[96] Gv 16,33. Nell’Apocalisse i pagani, venuti dal mondo, sono «coloro che sono venuti dalla grande tribolazione», dove mancava sia l’unico Dio che il suo Cristo.

[97] Gv 18,36.

[98] Mt 26,32.

[99] Gv 20,6-7.

[100] Mt 28,16.

[101] Lc 24,13-35.

[102] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, VII,217.

[103] Lc 24,13.

[104] Gv 19,25. Sorelle e fratelli, nella società ebraica di allora, erano anche i cugini più o meno stretti (confrontare tra loro Mt 13,55-56; 27,55-56; Mc 6,3; 15,40; Gv 19,25).

[105] Lc 24,22.

[106] Mt 18,16; Gv 8,13.17.

[107] San Girolamo, verso la fine del IV secolo, scrive: «Luca morì in Bitinia a 84 anni, pieno di Spirito Santo». La diversa località della morte di Luca nella testimonianza del prologo antimarcionita e in quella di San Girolamo potrebbe essere spiegata con una traslazione del suo corpo, sconosciuta a San Girolamo, da Tebe in Bitinia.

[108] Gv 19,35.

[109] Gv 20,30-31.

[110] In alcuni codici autorevoli Gv 20,31 ha il congiuntivo aoristo, che normalmente indica il tempo passato: pisteushte. Giovanni, poi, ripete il verbo al participio presente, non per insistere sulla necessità di credere per avere vita eterna – infatti la vita viene dai segni concreti e dal nome di Lui e la fede è solo la condizione per accogliere la vita – parla invece di due situazioni successive nel tempo: prima i “fratelli” di Gamla hanno potuto credere e adesso possono avere vita.

[111] Gv 20,30-31 e 21,25.

[112] Lc 1,1-2.

[113] Da questo luogo, Gesù risorto, facendosi vedere lungo la strada, poté andare indisturbato a Gamla, senza essere trattenuto da alcuno, come era invece avvenuto tre anni prima (Lc 4,42): quindi non lo vide la gente di Galilea e il luogo non era Cafarnao, ma uno più vicino a Gamla e già deserto.

[114] Mt 26,32; 28,7.10; Mc 14,28; 16,7.

[115] Mt 26,32: Gesù si rivolge soltanto ai Dodici, dopo l’ultima cena dove erano presenti soltanto loro; Mt 28,16: solo gli Undici si ritrovarono sul monte per incontrare quelli di Gamla.

[116] Gv 21,1ss.

[117] Gv 21,24: grayaV (“colui che ha scritto”) è al passato, mentre la testimonianza è al presente. Questo vuol dire che Giovanni ha scritto prima. Una persona sta trascrivendo sul rotolo (poco dopo gli avvenimenti) uno scritto di Giovanni contemporaneo a tauta (gli avvenimenti stessi). Questo significa mettere l'accento sulla cura del discepolo nello scrivere immediatamente.

[118] Vedere Gesù Cristo, nota a Gv 21,24.

[119] Ap 10,2.4.

[120] Vedere note a Gv 21,24.

[121] Gv 21,19: doxasei («glorificherà»).

[122] Lc 24,47; Gv 20,21-23.

[123] Vedere Gv 20,29, dove l'aoristo pisteusanteV si deve tradurre: «hanno creduto».

[124] Mt 28,7.10.

[125] Gv 21,15-17.

[126] Mt 28,16.

[127] Gv 6,3.15; Mt 14,23.

[128] At 1,3.

[129] Mt 28,17-18. Si realizzava ciò che era stato preannunciato in Gv 10,16, 11,52 e Mt 26,32. Gesù includeva nel suo gregge anche le comunità “sorelle” di Gamla in Asia Minore, segrete anch’esse nei confronti dei Romani dominatori, tanto che nemmeno Paolo parla dei cristiani di Efeso, che certamente non gli erano sconosciuti, provenienti dall’annuncio di Giovanni evangelista e dei suoi “fratelli”, ma soltanto di una dozzina di battezzati da Giovanni Battista (At 19,1-7).

[130] Vedere At 19,9-10: «…nella scuola di un certo Tiranno», che permise a Paolo di far conoscere la parola del Signore a tutta la regione in cui c’erano già le «sette Chiese» di Giovanni. Queste rimanevano piuttosto chiuse in se stesse e fortemente collegate a Gamla, ma sostennero Paolo di Tarso. Da Gamla vennero numerosi missionari (Ap 8,8) che collaboravano a distanza con l’Apostolo delle Genti (1 Cor 15,6).

[131] 1 Cor 15,5-8.

[132] At 1,3. Gesù parla in questi momenti di una ricostituzione del regno di Israele, ma pronuncia anche le profezie che leggiamo nell’Apocalisse: regno di mille anni, santa Gerusalemme nuova, ecc. Della caduta di Gerusalemme ha già parlato prima della sua passione e morte.

[133] At 1,5.

[134] Fondata da Giuda di Gamla, figlio di Ezechia: Guerra Giudaica II,118; Antichità Giudaiche, XVIII,4.

[135] Gv 6,14-15; 18,36.

[136] Se i «più di cinquecento» erano un gruppo apostolico di Gamla, si spiega Ap 8,8, che dice: «E il secondo angelo suonò: come un grande monte ardente di fuoco fu gettato nel mare, e un terzo del mare divenne sangue». Dopo quanto abbiamo detto, il passo si può interpretare così: «Gli abitanti di una grande città su un monte, accesi di Spirito Santo, entrarono attivamente in missione tra le genti, e molti pagani conobbero la “testimonianza di Gesù Cristo” (il sangue è simbolo di testimonianza)».

[137] At 1,6.

[138] At 1,15.

[139] At 2,1.7.44.

[140] At 2,45 e 4,32 hanno una forte somiglianza con quanto leggiamo in Guerra Giudaica di Flavio Giuseppe (2,122): «(Gli esseni) non curano la ricchezza ed è mirabile il modo come attuano la comunità dei beni, giacché è impossibile trovare presso di loro uno che possegga più degli altri; la regola è che chi entra metta il suo patrimonio a disposizione della comunità...».

[141] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, 2,118.

[142] Ap 10,8-10.

[143] Gv 2,21-22; 11,51-52; 12,16; 20,9; 21,23; ecc.

[144] Vedere Lc 1,4 e Traduzione ragionata del Prologo di Luca.

[145] At 6,7; Ap 11,16-17.

[146] At 2,42.

[147] Lc 1,2 e vedere Traduzione ragionata del Prologo di Luca.

[148] In greco: dihghsiV.

[149] Vedere At 6,7 e Ap 11,12-18; discorso del diacono Stefano e Ap 11,19 (che sembra accennare al discorso sull’Antico Testamento e alla persecuzione).

[150] Vedere 2 Ts.

[151] 2 Cor 8,18: «il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del Vangelo».

[152] At 6,13-14.

[153] Vedere Gv 18,37-38.

[154] Un po’ di tempo prima della morte di Filippo, avvenuta nel “ventesimo” anno di Tiberio, cioè nel 33-34 (Antichità Giudaiche, XVIII,106).

[155] Antichità Giudaiche, XVIII,95.

[156] Vedere Ap 12,6.

[157] Ap 12,6.14-17. La «donna», ornata di simboli di luce, rappresenta il gruppo dei “fratelli” di Gamla, convertiti al Cristianesimo (che hanno preso simboli dagli esseni).

[158] Il drago «stette ritto sulla sabbia del mare», ossia tra le popolazioni non ebree probabilmente dell’Asia Minore (Ap 12,18); tra le «Chiese che sono in Asia» c’erano persone che si proclamavano Giudei ma erano «sinagoga di satana» (Ap 2,9…), i Nicolaiti (Ap 2,6.15).

[159] Vedere 1 Gv 2,18-19: «sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri…».

[160] Questo leggiamo nell' Apologeticum di Tertulliano (5,2): «Tiberius ergo, cuius tempore nomen Christianorum in saeculum intravit, adnuntiata sibi ex Syria Palaestina, quae illic veritatem istius divinitatis revelaverant, detulit ad senatum cum praerogativa suffragii sui. Senatus, quia non ipse probaverat, respuit; Caesar in sententia mansit, comminatus periculum accusatoribus Christianorum. Consulite commentarios vestros, illic reperietis primum Neronem in hanc sectam cum maxime Romae orientem Caesariano gladio ferocisse» («Tiberio, dunque, al tempo del quale entrò nel mondo il nome di “Cristiani”, riferì al Senato, con la prerogativa del suo favore, le cose a lui annunciate dalla Siria-Palestina, che avevano rivelato in quei luoghi la verità di questa divinità. Il Senato, non avendone avuto prova esso stesso, le respinse; Cesare rimase fermo nella sua decisione e minacciò la pena di morte agli accusatori dei Cristiani. Consultate i vostri annali, là scoprirete che Nerone fu il primo a infierire con la spada di Cesare contro questa setta, proprio mentre a Roma cresceva maggiormente»). La divinità di cui si parla è Gesù Cristo.

[161] Lc 1,3; At 1,1.

[162] Vedere la Traduzione ragionata del Prologo di Luca.

[163] Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XVIII,123; XIX,297.

[164] Vedere Lc 9,51.

[165] Lc 3,12-14; 7,4-5.9; 18,1; 23,47.

[166] Confrontare Mc 16,12 con Lc 24,13.

[167] Lc 24,51; At 1,2.11.

[168] Mt 14,22-15,39.

[169] Sembra che Luca abbia aggiunto qualche parola di spiegazione al testo “ebraico” di Matteo, ad esempio, più di una volta, la parola «conversione» (vedere anche Ap 2,5.16.21-22; 3,3.19; 9,20-21; 16,9.11). Ma non è nemmeno raro che sia Matteo, nel testo greco che possediamo, ad aggiungere o togliere parole e frasi. Potrebbe dunque essere stato Matteo a tralasciare questa parola.

[170] Ad esempio il dato storico prezioso di Gv 2,20 («questo tempio è stato costruito in quarantasei anni»), che permette di precisare le date della vita di Gesù Cristo, risolvendo incertezze ed errori di Flavio Giuseppe.

[171] Gv 21.

[172] Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XVIII,123.

[173] Erano ambedue figli del sommo sacerdote Anna, forse Teofilo era figlio di una moglie ellenista di Anna, perché il suo nome era greco. A Teofilo Luca indirizza sia il Vangelo che gli Atti: Lc 1,4; At 1,1.

[174] Dopo 25 anni, 7 mesi e 28 giorni di regno.

[175] «Sull’atrio fuori del Tempio»: Ap 11,2; 13,5.

[176] Vedere At 9,31.

[177] 2 Ts 2,7.

[178] Ap 12,14.

[179] Ap 12,10.

[180] Paolo, nella lettera ai Galati, non trova Giovanni a Gerusalemme «tre anni dopo» il 35, cioè nel 38. E negli Atti degli Apostoli, dopo 8,14, che si riferisce al periodo in cui intervenne Vitellio a insediare i sommi sacrdoti Gionata (Giovanni) e Teofilo, non troviamo più Giovanni e Pietro insieme.

[181] Ap 11,12.

[182] Ap 11,1.

[183] Per esempio: Mt 28,1-8 al confronto con Lc 24,4 e Gv 20,12; Mt 20,29-34 al confronto con Lc 18,35-43.

[184] Mt 20,29-34; Mc 10,46-52; Lc 18,35-43.

[185] Mt 13,51-52.

[186] Vedere Mt 18,1-5.

[187] Mt 24,15.

[188] Dn 9,27.

[189] Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, II,185. Vedere anche Ap 13,10.

[190] Ap 17,8.

[191] Mc 13,14.

[192] Lc 5,19.

[193] G. Flavio, Antichità Giudaiche, 19,297.

[194] At 12,3.

[195] 2 Ts 2,7: «Il mistero dell’iniquità sta già agendo; (basterà) soltanto che esca di scena colui che finora lo trattiene».

[196] Vedere 2 Ts 2,7.

[197] Vedere Gv 1,44; 12,20-22: i Greci si rivolgono a Filippo e Andrea perché parlano il greco, Pietro è fratello di Andrea di Betsaida.

[198] Che Marco dipenda da Matteo e Luca, che cioè abbia scritto dopo di loro, non è un'idea nuova. È stato sostenuto dal tedesco Griesbach nel 1789. Anche nel nostro tempo l'hanno sostenuto i neo-griesbachiani W. R. Farmer, B. Orchard, D. L. Dungan.

[199] Mc 11,15-17; Mt 21,12-13; Lc 19,45-46; Gv 2,14-16.

[200] 1,12-13; 9,48-50; 16,8…

[201] Per questo il Vangelo di Marco presenta le caratteristiche espressive dell'aramaico.

[202] At 12,3.

[203] At 1,17.

[204] Vedere At 6,1-6.

[205] Mt 14,27 e Gv 6,20; Mt 26,11 e Gv 12,8.

[206] Lc 24,12 e Gv 20,5.

[207] Lc 6,46-49.

[208] Mt 16,18.

[209] 2 Tm 1,10.

[210] Vedere Gesù Cristo nota a Gv 18,36.

[211] La doppia fedeltà, all’Ebraismo e al Cristianesimo, e l’apertura alle Genti sono la chiave per capire a fondo anche le tre lettere di Giovanni.

[212] Ap 7,14.

[213] Ap 21,2.10.

[214] Nell'Apocalisse i verbi all'aoristo si possono legittimamente tradurre in modo da mostrare che è Caligola questa testa colpita a morte.

[215] «Qui (ci vuole) una mente che ha saggezza. Le sette teste sono sette monti (quelli di Roma, cioè della “bestia”), sui quali la donna (Gerusalemme) siede (la “donna” siede sulla “bestia”); e sono sette re. I (primi) cinque sono caduti, uno c’è, l’altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco. E la bestia che era e non è, essa è l’ottavo e uno dei sette, e viene per la rovina» (Ap 17,9-11).

[216] In greco e in ebraico, i numeri si scrivevano usando le lettere dell’alfabeto. Il numero di un nome si ottiene sommando i numeri che corrispondono a ogni lettera del nome stesso. Nel codice C e in altri, il numero è 616, corrispondente al nome di “Caligola”, GaioV Kaisar: (G) 3 + (a) 1 + (i) 10 + (o) 70 + (V = s) 200 + (K) 20 + (a) 1 + (i) 10 + (s) 200 + (a) 1 + (r) 100 = 616. Probabilmente alcuni trascrittori hanno voluto trovare il riferimento al nome di un imperatore preciso, mentre il numero originale deve essere stato proprio il 666, che indica il potere di Roma in genere: da Gneo (Pompeo) agli imperatori chiamati “Cesare” = GnaioV + Kaisar. Era stata aggiunta al nome GaioV una “n” (in greco n), che vale 50, e si era ottenuto il 666.

[217] Vedere Ap 13,1 (il potere di Roma e in particolare di Gaio Cesare “Caligola”) e 13,11: la “bestia”, che saliva dalla “terra” (d’Israele), era il potere di una parte dei sacerdoti, che lo esercitavano all’ombra di Roma. Contemporaneamente c’erano sacerdoti come Teofilo, altrettanto in rapporto con Roma, che sostenevano l’azione dei Cristiani in terra di Israele. Così ci poté essere un periodo ci circa trent’anni di pace.

[218] Ap 19,10.

[219] 2 Cor 8,18.

[220] Lc 21,24.

[221] Ap 12,17; 2,2: i falsi apostoli provenivano da Gerusalemme e si erano sparsi nell’Asia Minore.

[222] da Gneo Pompeo a Gaio Cesare: numero 666 (vedere le note successive).

[223] Ap 22,17.

[224] At 12,17.

[225] At 1,1.

[226] S. Ireneo di Lione, Contro le eresie, III,1,1.

[227] At 12,24.

[228] 1 Cor 15,3. Vedere anche Lc 18,1: molti hanno notato che Paolo insiste sulla preghiera, con lo stesso verbo, proseucesqai, usato da Luca; ma in Luca si tratta di una attestazione della “pietas” cristiana, che egli ha raccolto in casa dei ricchi proprietari coinvolti con i Romani, una dimostrazione da far valere presso il potere di Roma. Non si tratta di un insegnamento di Paolo, ma è Paolo che l’ha appreso da Luca.

[229] Gal 1,11-18.

[230] Rm 2,16; 2 Tm 2,8.

[231] At 16,10; 20,5-21,18; 27,1-28,15.

[232] 2 Ts 2,7.

[233] 2 Ts 2,7.

[234] L'archeologa Margherita Guarducci ha raggiunto la certezza che il martirio di Pietro sia avvenuto il 13 ottobre del 67, nel decimo anniversario dell’ascesa al potere di Nerone.

[235] Vedere Ap 14,10; 15,7.

[236] Ap 5,9; 7,9; 19,7-8; 22,2.9-10.

[237] Lc 4, 42-43; Mc 1,35-39.

[238] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, IV,10.

[239] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, IV,26.

[240] F. Giuseppe, Guerra Giudaica, IV,9.

[241] Però non risulta che i Romani l’abbiano distrutta. È andata in rovina con il tempo, ma sotto le macerie si trovano una gran quantità di segni della vita dei suoi abitanti. Notiamo le diverse profezie che Gesù aveva pronunciato riguardo a Pietro e riguardo a Giovanni. Gv 21,18: «(Simone di Giovanni), quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove non vuoi». Pietro avrebbe testimoniato Gesù Cristo con la crocifissione. Gv 21,22: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi!». La testimonianza della “comunità di Giovanni” è ancora presente, nell’Apocalisse e nei reperti trovati a Gamla, e potrà restare visibile ancora per molto tempo.

[242] Lc 21,24.

[243] Vedere Gv 20,31.

[244] Vedere Gv 7,53-8,11.

[245] Appare ora assai prezioso quel frammento di papiro trovato nelle grotte di Qumran, denominato 7Q5, sul quale il papirologo Padre O'Callaghan ha svolto un’accurata indagine scientifica giungendo alla conclusione che sia stato scritto prima dell'anno 50. Infatti molte prove al computer mostrano che questo frammento riporta, in greco, alcune parole di Mc 6,52-53. La data del 7Q5 è da considerare come il limite, prima del quale sono stati scritti, anche se non pubblicati, tutti e quattro i Vangeli, eccetto Mc 16,9-20 e alcune brevi aggiunte di Giovanni.

[246] Mc 16,9-20.

[247] La stessa teologia cristiana nasce da ciò che Gesù Cristo ha detto e ha fatto. I problemi e gli approfondimenti teologici sono suscitati dalla vita quotidiana dei fedeli cristiani, ma si risolvono semplicemente nel comprendere in modo più vero le opere e le parole storiche di Gesù, come ci sono tramandate dai Vangeli. Per questo è fondamentale individuare il valore storico dei Vangeli.